Monthly Archives: settembre 2013

Cinema

70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013

Quarta (e ultima) Puntata: and the winners are…

di Filippo Zoratti
 

                    LEONE D’ORO: Sacro GRA di Gianfranco Rosi (Italia 2013)

Scandalo al Festival di Venezia: vince un documentario. Nessuno – ma proprio nessuno – avrebbe puntato un centesimo sulla vittoria finale di “Sacro GRA”. Ma non perché l’opera di Rosi non sia degna di attenzione, anzi; il problema di fondo è il pregiudizio globale da sempre vivo nei confronti dei lavori non strettamente narrativi. Va bene, abbiamo pensato, in concorso ci sono due doc (oltre a Rosi, “The Unknown Known” di Morris su Rumsfeld), ma più di così non potranno ottenere. E invece, con un colpo di coda da rivoluzionario consumato, Bernardo Bertolucci premia le cronache dal Grande Raccordo Anulare romano, che intersecano sette micro-vicende riprese dal regista per ben due anni (più otto mesi di montaggio). Pare che il mosaico tragicomico che prende forma e contenuto davanti ai nostri occhi si ispiri al romanzo di Calvino “Le città invisibili”, e difatti l’umanità filmata è inattesa e nascosta: dal palmologo che dedica tutta la sua vita alle piante al nobile piemontese decaduto che vive in un monolocale, fino alla prostituta non più giovanissima che canticchia Gianna Nannini e all’infermiere che lavora in ambulanza e assiste la madre anziana. La periferia capitolina si fa sineddoche del mondo, e con straordinario tocco poetico e gusto agrodolce il regista ci concede il lusso del distacco: non inquina le prove, non ammorba lo spettatore con inutili e dannose voci off. Bertolucci e la giuria veneziana – pur se non all’unanimità – hanno lanciato un sasso, ora speriamo che tutti gli altri non ritirino la mano.

                    LEONE D’ARGENTO: Miss Violence di Alexander Avranas (Grecia 2013)

C’è chi lo chiama Rinascimento, chi Nouvelle Vague e chi ancora Rivoluzione. Una cosa è certa: il nuovo cinema greco è uno dei più densi, metaforici e “artistici” dell’ultimo decennio. Lo avevamo già compreso grazie a “Dogtooth”, “Attenberg” ed “Alpis”: il centro dell’attenzione è la perdita di identità dell’individuo, schiacciato e castrato dalla crisi e dal crollo delle istituzioni. Il sipario di “Miss Violence” si apre su un interno familiare felice, perché si festeggia il compleanno dell’undicenne Aggeliki. Poi il disastro: Aggeliki esce dal salotto, si sporge dal terrazzo e si butta nel vuoto. Spiega il regista: “Vivendo in una società in cui non si vuole guardare oltre le apparenze, saremo sempre oppressi, non ci sarà mai nessuno che vuole fare la rivoluzione”. Infatti nessuno avrà il coraggio di opporsi alla tirannia del capofamiglia, uomo dall’aspetto mite che sottomette moglie, figlia 30enne e nipoti al suo terrificante schema gerarchico. La violenza fisica e psicologica si insinuerà lenta ed inesorabile, attraverso inquadrature fisse e una cura chirurgica del “non visto”. Segue dibattito: quanto è pornografica la visione di “Miss Violence”? Quanto emula il raggelato cinismo di Michael Haneke? Noi ci fermiamo prima, osservando due opposti modi di utilizzare il mezzo cinematografico per affrontare la crisi in atto: in Grecia ci sbattono la faccia contro; in Italia si aggira l’ostacolo, sfornando commedie per “distrarre” il pubblico. “Questa è l’Italia del futuro, un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte” diceva la serie tv “Boris”. Ed è questo che ci deve davvero spaventare.

                    GRAN PREMIO DELLA GIURIA: Stray Dogs di Tsai Ming-liang (Cina/Francia 2013)

A Venezia c’è sempre spazio per il cinema asiatico, e questo è un bene. Di più: a Venezia c’è sempre spazio almeno per un premio ad un film proveniente dall’Oriente, e questo non è detto che sia in assoluto ogni anno un bene. Su “Stray Dogs” ci si potrebbe dilungare per ore, perché qualità e difetti coincidono, chi lo ama lo fa per gli stessi motivi per cui altri lo detestano. Tsai non ci aiuta, ma è tutto voluto: a Taipei un disperato nucleo familiare vagabonda per la città. Il padre lavora come “reggicartello”, schiaffeggiato dal vento, dalla pioggia e dalla solitudine; i due figli vagano senza una meta lavandosi nei bagni pubblici; la donna (che non è la madre) lavora in un supermercato, e si unisce al gruppo forse non animata dalle migliori intenzioni. Intriso di tristezza e depressione, “Stray Dogs” procede per “quadri umani” di estenuante lirismo e lentezza. Siamo ben disposti ad accogliere i tempi lunghi, i primi piani fissi di venti minuti, la pressoché mancanza di dialogo… ma devono avere sempre un significato, il gioco cioè deve – dovrebbe – valere sempre la candela. Al di là della scarsa originalità della storia, la sensazione è che la regia sia più di maniera di quanto vorrebbe apparire, coperta e salvata da un uso magistrale della fotografia e indubbiamente illuminata da alcune sequenze potentissime (la scena del cavolo, l’ultimo quarto d’ora inchiodato nella ripresa dei due adulti che fissano un dipinto su un muro). Ma siamo sul crinale di un’operazione ingiudicabile e intollerabile, e sorge il dubbio che il premio sia più dedicato alla carriera dell’autore (che ha dichiarato che non girerà più) che alla qualità dell’opera in sé.

Filippo Zoratti

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70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013

Terza Puntata: Venezia anno zero (?)

di Filippo Zoratti

Il Leone d’Oro consegnato da Bernardo Bertolucci al documentario italiano “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi non è solo un gesto provocatorio e coraggioso, ma possiede persino un’aura rivoluzionaria ed eversiva. L’espressione compiaciuta del maestro parmense subito dopo la proclamazione dice tutto: ad inizio festival era a caccia di sorprese, e ha finito col sorprenderci tutti. Nel toto-Leone dei giorni precedenti avevamo considerato mille opzioni possibili, dal trionfo del cinema greco giunto finalmente al pieno sviluppo narrativo al premio “obbligato” per un Miyazaki che dichiara il proprio ritiro, passando attraverso la definitiva consacrazione del 24enne franco/canadese Xavier Dolan e la perfezione stilistico-formale della “Philomena” di Frears. Mai avremmo intuito che il riconoscimento più importante andasse ad un’opera non di finzione, e men che meno che tra i due documentari in gara potesse spuntarla quello sul grande raccordo anulare invece di quello sul diplomatico statunitense Donald Rumsfeld (“The Unknown Known”). Dicevamo, trattasi di decisione potente e ribelle. Ribelle anzitutto proprio nei confronti della “medietà” straordinariamente rappresentata dal sopraccitato “Philomena”, film perfetto e inattaccabile, né eccelso né criticabile, macchina da guerra atta ad accontentare pubblico e addetti ai lavori in egual misura. Ma provocazione fa rima anche con rinnovamento, e da questo punto di vista Bertolucci e la giuria – formata fra gli altri da Andrea Arnold, Martina Gedeck, Pablo Larrain, Carrie Fisher e Ryuichi Sakamoto – hanno capito tutto. Nell’anno del definitivo e tangibile superamento da parte del Toronto Film Festival (che ha più denaro, più visibilità, più blasone) la scossa era necessaria come l’ossigeno, per sancire lo stato di salute di un evento imprescindibile ma in palese difficoltà. Venezia ha scelto la propria via, e a ben guardare ogni premio assume i connotati di una precisa dichiarazione di intenti fatta a muso duro nei confronti dei detrattori e dei malpensanti. Vince l’Italia perché i prodotti italiani sanno e possono essere ancora competitivi, e sono in grado di intraprendere nuove e diverse vie creative lontane dall’anestesia totale delle commedie buoniste; ma Venezia sa riconoscere anche il respiro e l’urgenza della cinematografia greca, esplosa quest’anno con la potenza disperata e iperrealista di “Miss Violence”. La Mostra si fa madrina dei vari Lanthimos, Tsangari, Avranas, così come da decenni è roccaforte delle produzioni asiatiche di Ang Lee, Jia Zangke, Brillante Mendoza. Merito di quest’ultima caratteristica va di sicuro al predecessore Marco Muller, ma Barbera e il suo staff hanno saputo raccogliere il testimone pur ridimensionandone l’eccessiva esposizione. Quest’anno è stata la volta di Tsai Ming-liang col discusso – e discutibile, a modesto parere di chi scrive – “Stray Dogs”, Gran Premio della Giuria d’autore che riaccende una mai sopita polemica: a cosa servono i festival di cinema? Sebbene questa 70a edizione porti “in nuce” i tratti di un nuovo inizio più consapevole e maturo non si può negare che il palmares ci spinga all’ennesima riflessione su di un’apertura al pubblico che spesso manca. E’ una classifica finale “museale”, scrive Paolo Mereghetti dalle pagine del Corriere della Sera, che ci porta al vicolo cieco della chiusura nei confronti di chi i film li vuole fruire nelle sale. Ma siamo proprio sicuri che a decidere l’affluenza degli spettatori al cinema sia il podio di un festival e non piuttosto un mercato drogato, vecchio e instabile che non riesce a stare al passo coi tempi della digitalizzazione, del download e dello streaming?

Filippo Zoratti

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70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013

Seconda Puntata: il documentario ci salverà

di Filippo Zoratti

Abbiamo dato retta a Barbera, che ad inizio festival auspicava per tutti un percorso a zig zag, che attraversasse in diagonale tutte le direzioni. Così, dopo l’apertura “gravitazionale” di Alfonso Cuaron, ci siamo poco o nulla preoccupati del nome e della (presunta) importanza delle sezioni, perdendoci tra gli Orizzonti, le Giornate degli Autori e la Settimana della Critica. In verità, qualche scelta s’è rivelata forzata: è solo perdendo “Night Moves” che abbiamo scoperto, ad esempio, la scanzonata leggerezza dello svedese “We Are the Best”, incentrato su un gruppo di adolescenti innamorate del punk e disposte a tutto pur di poter continuare a cullare, dolcemente, il proprio sogno. E’ interessante notare come questa, assieme al folle giapponese “Why Don’t You Play in Hell” dell’altrettanto folle Sono Sion, sia una delle pochissime concessioni di genere comico in un festival che – almeno fino a questo momento – ha intrapreso la via del thriller psicologico con risvolti violenti, sia fisici che psicologici. E’ di nuovo rivolgendoci al Concorso che ci siamo imbattuti in “The Police Officer’s Wife”, del tedesco Philip Groning: tre ore tese e claustrofobiche, uno sfibrante massacro familiare incentrato sugli abusi perpetrati da un giovane padre di famiglia nei confronti della moglie impotente decisa a resistere per il bene della figlioletta. L’abuso è anche uno dei temi portanti dell’americanissimo “Joe”, che trascinandoci nella periferia yankee più cupa inquadra la lotta del ruvido ma dal cuore tenero Nicholas Cage con un padre/padrone che maltratta il proprio primogenito. Un percorso che sembra creato ad hoc, giacché anche in “Miss Violence” (al momento personale Leone d’Oro di chi scrive) a fare da cornice ad una agghiacciante vicenda familiare che sfocia persino nell’incesto c’è la Grecia contemporanea della crisi economica, livida e senza speranza. Per regalarci una boccata di ossigeno ci siamo allora concessi l’omaggio dedicato a William Friedkin per il suo Leone d’Oro alla Carriera, subito dopo la visione del capolavoro “Il salario della paura”. E ci siamo addirittura lanciati in sala per lo splatter “Wolf Creek 2”, acuto divertissement d’autore in salsa australiana. Il percorso però è stato anche accidentato: meglio stendere un velo pietoso ad esempio su “Kill your Darlings” con l’ex maghetto Daniel Radcliffe nei panni di Allen Ginsberg e su “Palo Alto”, esordio alla regia di Gia Coppola (nipote di) e opera confusa priva di spessore ma con molte velleità d’autore. Pur tuttavia continueremo a seguire le evoluzioni artistiche di James Franco, presente quest’anno come attore, come soggettista/sceneggiatore (“Palo Alto” è tratto da un suo libro di racconti) e come regista di “Child of God”. Una pellicola che se non altro resterà alla memoria per l’interpretazione “mimetica” dell’attore protagonista, il carneade Scott Haze. Ma, diciamocelo, ci stiamo nascondendo dietro ad un dito. Ad innalzare il livello qualitativo dell’intera manifestazione in verità quest’anno sono i documentari, presenti in modo trasversale in quasi tutte le sezioni. C’è l’imbarazzo della scelta, tra “The Armstrong Lie”, sull’affaire ciclistico dell’anno, “At Berkeley” del maestro Wiseman e i due carichi pesanti in Concorso, “The Unknown Known” di Morris e “Sacro GRA” di Rosi. Tralasciando gli omaggi a Tinto Brass, Bertolucci, Bergman, Lino Micciché… Detto fra le righe: la sensazione è che saranno proprio i prodotti non finzionali a rendere memorabile questa 70a edizione della Mostra. Un segnale tutt’altro che trascurabile, a poco più di 100 anni dalla nascita del Cinema.

Filippo Zoratti

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Prima Puntata: il Festival ai tempi della crisi

di Filippo Zoratti

Chissà dove ci vuole portare Alberto Barbera. Quella che l’anno scorso era parsa ai più come una scelta “attendista” e di passaggio per il dopo Muller, ha assunto via via dei contorni più definiti e marcati. L’identità e l’impronta del nuovo Direttore ci sono, iniziano a farsi sentire forti e chiare. Barbera non è una sprovveduta vittima sacrificale finita centrifugata nella crisi economica e culturale degli anni Duemila; Barbera la cavalca con disinvoltura, la crisi. Lo si capisce – prima ancora che dalle sue interviste e dagli interventi fatti in queste settimane – dall’impianto deciso per il “suo” festival: meno film in rassegna anzitutto, una scelta ampiamente controcorrente rispetto alla bulimia della gestione precedente; una conseguente maggiore attenzione ai percorsi autoriali, ai recuperi (quella sezione Venezia Classici che da ultimo ripiego spesso diventa rifugio e riscoperta per i cinefili presenti al Lido); l’imposizione – qualcuno dirà “forzata” – di un basso profilo persino nelle strutture e nelle architetture, con accessi meno restrittivi ed elitari. Si potrebbe anche far finta di niente, per carità; ma sarebbe persino ottuso non accorgersi che oggi a dominare lo scenario internazionale sono Cannes e Toronto. Questo non significa che agli altri vadano gli scarti, anzi: agli altri va la ricerca di nuovi stimoli, di una qualità che spesso “dovrebbe” essere insita nel dna delle kermesse festivaliere ma di cui spesso non v’è traccia. Insomma, in poche parole ci vogliono coraggio e lungimiranza per stare a galla, per gettare il cuore oltre l’ostacolo. Decidere che il film di apertura possa essere Gravity, ad esempio, è un clamoroso gesto di coraggio. Il nuovo film di Alfonso Cuaròn con protagonisti George Clooney ma soprattutto Sandra Bullock è un nuovo punto di approdo e (ri)partenza per la fantascienza, un prototipo cui in futuro si dovrà fare riferimento per il genere. Gravity è “sense of wonder”, spettacolo mozzafiato ed esistenziale con un uso della stereoscopia mai visto prima. Iniziare con un prodotto di questo tipo – che pur gioca amabilmente con il mainstream senza esserne vittima – significa aver capito “dove tira il vento”, cosa è e cosa in pochissimi anni sarà il cinema dopo il Big Bang digitale. Il futuro è oltre la sala, e Barbera scoperchia il vaso di Pandora per mostrarci le sue nuove e straordinarie potenzialità. Ma il futuro porta anche al documentario, spesso associato – chissà perché – ad un’idea polverosa ed antica di fruizione cinematografica. A memoria non si ricorda un’edizione così piena di opere non di finzione, su tutti i lavori in Concorso di Morris e Rosi (rispettivamente The Unknown Known e Sacro GRA). Basta davvero capire che siamo in un’epoca confusa, ma che questo non significa che il bicchiere debba necessariamente essere mezzo vuoto. E’ così che, nell’eterna diatriba sul senso dei festival, le rassegne smettono di essere vetrine promozionali e si trasformano in campo d’esplorazione. E’ lo stesso Barbera ad affermarlo con decisione, consigliando durante la Mostra “un percorso a zig zag, che attraversi in diagonale tutte le direzioni”. Perdendo qualcosa per strada, potremmo stupirci di nuovi percorsi. Questa è la gestione Barbera, questo il suo modo di intendere i Festival al tempo della crisi. Nell’attesa di capire se Venezia tornerà ad incidere come un tempo sull’industria cinematografica (ovvero ad avere un peso sugli incassi prossimi venturi, come puntualmente sottolinea Roy Menarini in un suo articolo per la rivista on line Mediacritica) tutto questo ci sembra un ottimo inizio. La difesa è – e sempre sarà – l’attacco. E noi tifiamo apertamente per il Direttore Barbera.

Filippo Zoratti