Episodio III: Il Battito Animale del Cinema
di Filippo ZorattiIn quanti modi è possibile declinare una rassegna cinematografica? Per definizione, dicesi retrospettiva un ciclo di proiezioni che illustra l’evoluzione di un artista, di un movimento “culturale”. Ed è, in effetti, ciò a cui siamo abituati: nei festival vengono prese in considerazione le carriere di registi e talvolta di attori, oppure di generi e sottogeneri seminali. A volte ci si può imbattere in una serie di restauri importanti per il curatore della sezione, come accade ad esempio con i Venezia Classici della Biennale. La proposta della Viennale – di cui vale la pena parlare anche a festival finito, perché si svolge autonomamente dal 16 ottobre al 30 novembre – allarga a dismisura il ventaglio, abbracciando in pratica tutta la storia del Cinema fin dai suoi albori: “Animals” si impone come una “piccola zoologia delle immagini in movimento”, un dialogo fra natura e tecnologia interpretabile nei modi più disparati. Nelle parole del selezionatore Akira Lippit, la mostra “non accampa alcuna pretesa di completezza, ma è utile per comprendere come il mezzo cinematografico fin dalla sua preistoria abbia preservato la vita animale”. Fra i 47 lungometraggi (più un numero imprecisato di corti) spicca “Gli uccelli” di Hitchcock, punta di diamante anche in virtù della presenza viennese della protagonista Tippi Hedren e titolo spartiacque: i volatili di sir Alfred sono un elemento subordinato che diviene protagonista, un comprimario trascurabile che si tramuta in minaccia e nemico da debellare. Le opere di più facile richiamo sottolineano come la visione ferina si sia trasformata nel corso dei decenni: nel dittico formato da “Tarzan l’uomo scimmia” (1932) e da “King Kong” (1933) l’animale “è” l’uomo, perché contribuisce alla crescita di un essere “selvaggio” abbandonato a sé e crea un’immedesimazione tale da veicolare una riflessione sulla bestialità di cui siamo capaci; ma basta spostarsi qualche anno più là per incrociare lo straziante “Bambi” (1942) e “Torna a casa, Lassie!” (1943) e assistere ad un nuovo punto di vista che fa coincidere un cerbiatto e un esemplare di collie con l’ingenuità (vagamente ricattatoria) e la totale fedeltà verso l’uomo. Probabilmente l’espressione più stimolante e degna di menzione della dicotomia umano-disumano viene dalle metaforizzazioni, ancora visibili nonostante la non stringente attualità: è impossibile non leggere nella devastazione del primo eccezionale “Godzilla” (1954) uno spauracchio della Guerra Mondiale da poco conclusasi, così come – sorpassando di slancio il nostalgico comparto degli effetti speciali – pare evidente la critica alla presunzione e all’onnipotenza umana nell’originale “Il pianeta delle scimmie” (1968). Fra irresisitbili animali antropomorfi e parlanti (“Babe va in città”, “Fantastic Mr. Fox”), cani e corvi neorealisti (“Umberto D.”, “Uccellacci e uccellini”) e bizzarre mutazioni da incubo (“La mosca”), sono tuttavia come sempre i documentari a lasciare il segno, a dare senso ad una retrospettiva che raccoglie più animali di quanti la nostra memoria e la nostra comprensione possano accogliere. “Koko, il gorilla che parla” (a metà fra doc e finzione), “Animal Love” di Seidl, “Grizzly Man” di Herzog e “Cane Toads” di Mark Lewis parlano di noi, di un battito animale che è il nostro e di cui – cinematograficamente ed esistenzialmente – non possiamo fare a meno. Il cinema e l’uomo non sono nulla senza gli animali… compresi i meme di Facebook e i filmati sui gattini di Youtube.
Filippo Zoratti