Il cinema della verità, la verità del cinema
di Filippo ZorattiIdealmente introdotta dal – non irresistibile – trailer del festival “Cinéma Vérité” diretto da Klaus Wyborny (regista d’avanguardia tanto conosciuto e apprezzato in Germania e Austria quanto carneade nel resto d’Europa) la sezione dedicata ai documentari è stata la più efficace a delineare solidi percorsi di senso e contenuto, all’interno del ricco paniere di programmi speciali, focus e retrospettive proposto come ogni anno dalla Viennale. È nel discusso “Homo Sapiens” di Nikolaus Geyrhalter che possiamo forse individuare l’ariete da sfondamento del gruppo (sono ben 70 le pellicole proiettate), successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Una presa di coscienza che è anche un monito, e questo ci sembra uno dei fil rouge più evidenti della selezione, attraversato da altri “incubi” di differente collocazione geografica ma portatori del medesimo messaggio: come “Eldorado XXI”, che racconta le condizioni di vita dei lavoratori di una miniera d’oro nel sud-est del Perù; o come “Furusato”, amara ricognizione di ciò che è rimasto a Fukushima dopo il disastro – terremoto più tsunami – che ha portato a quattro devastanti esplosioni nella centrale nucleare omonima. Da un lato il cammino di auto-distruzione degli esseri umani, stravolti dall’illusione dell’arricchimento a scapito di un ambiente sfruttato senza soluzione di continuità; dall’altro una riflessione sui pro e i contro della corsa al progresso, spesso più importante dei rischi e dei sacrifici legati ad essa. E al centro l’uomo, incapace di controllare se stesso e di ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni. Dall’universale al particolare, il “cinema della verità” può essere declinato anche attraverso le istanze del biopic, dell’istantanea biografica e celebrativa di personaggi che a modo loro hanno fatto la storia o hanno contribuito a renderla migliore. Personalità riconosciute all’unanimità o destinate a lavorare sottotraccia, e quindi per questo persino più interessanti: se Joao Botelho fotografa l’arte di Manoel de Oliveira con “The Cinema, Manoel de Oliveira and me”, Salomé Jashi riprende in “The Dazzling Light of Sunset” le avventure dei giornalisti georgiani Dariko e Kakha, uniche fonti d’informazione nella remota città di Tsalenjikha; se Hervé Martin-Delpierre ricostruisce la mitologica carriera dei Daft Punk in “Daft Punk Unchained”, Maya Abdul-Malak (“Des hommes debout”) omaggia l’anonimo proprietario di un call shop a Parigi, piccola patria per gli immigrati mediorientali che grazie alle tre cabine telefoniche del locale possono chiamare i loro lontani familiari. Le visioni non filtrate del documentario ci condannano, palesando con l’inconfutabilità della ripresa “reale” la nostra limitatezza; ma al contempo ci salvano, ricordandoci quanto e cosa siamo capaci di costruire artisticamente e umanamente. Ancora una volta ci chiediamo (magari di fronte all’”Austerlitz” di Sergei Loznitsa): esiste testimonianza migliore della verità offerta dal cinema?
Filippo Zoratti