Per una volta, i rumors si sono rivelati esatti. Fin dalla sua prima proiezione, Pietà di Kim Ki-duk era divenuto il peso massimo su cui puntare per il Leone d’Oro. Tutti d’accordo quindi? Mica tanto. Anzitutto, per l’innegabile prevedibilità del verdetto. Perché la parabola del regista eremita, ex operaio di Seul che conquista i favori dei festival con una manciata di opere dense di lirismo (L’isola, 2000; Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, 2003; Ferro 3, 2004; L’arco, 2005; Soffio, 2007), per poi entrare in crisi esistenziale riemergendone dopo quattro anni di silenzio, era l’unica “favola bella” già scritta e preconfezionata della Mostra. Talmente tanto che, nonostante la critica internazionale avesse ampiamente deciso che i film migliori della kermesse fossero Après Mai di Assayas e The Master di Paul Thomas Anderson, veniva dato comunque per vittorioso il lungometraggio coreano. Sia chiaro, Pietà non è assolutamente un lavoro inutile o inferiore rispetto alla – notevole – media vista al Lido quest’anno. Solo che, come ha avuto modo di sottolineare Paolo Mereghetti sulle pagine dello Spettacolo del Corriere della Sera, di fronte all’operato di Kim si ha sempre la sensazione di assistere a qualcosa di “più furbo che bello”. Nello specifico, Pietà ci presenta il carattere dei personaggi nelle prime scene per colpire basso chi guarda: la violenza dell’esattore protagonista è feroce e smodata, così come la sottomissione della madre supera ampiamente la soglia del masochismo. Nemmeno la giuria capitanata da Michael Mann ha saputo allontanarsi dalle previsioni, palesando nella serata di chiusura una evidente confusione e impreparazione: dopo aver dichiarato che avrebbe attribuito un solo premio ad opera ne dà due a The Master, oltretutto confondendo il Leone d’Argento del film di Anderson con il Premio Speciale della Giuria dell’austriaco Paradies: Glaube (e se non ci fosse stata Laetitia Casta a ristabilire l’ordine? Saremmo qui a parlare di un altro palmares?). Un disastro, che forse negli anni passerà in secondo piano solo grazie alla presenza “post atomica” di Kim Ki-duk, che dopo essere salito sul palco in pantofole, braghe di tela e giacca contadina con bottoni d’osso, come ringraziamento ha intonato “Arirang”, vero inno nazionale alternativo di Corea. Per quanto si sia parlato di una giuria che molto ha discusso, valutando le opere in gara secondo precisi criteri di merito, capacità di evocare emozioni, ambizione e valore estetico, non si può certo dire che il termine più calzante per definire la commissione sia stato “coraggio”. L’Italia doveva vincere qualcosa, e così è stato, con i contentini a casaccio dati a E’ stato il figlio (Premio per il miglior contributo tecnico, forse l’elemento di meno spicco nel lavoro di Ciprì) e a Bella addormentata (Premio Mastroianni all’emergente Fabrizio Falco). E per l’inevitabile politically correct è arrivata anche la Coppa Volpi a Hadas Yaron, protagonista dell’israeliano Fill the Void. Bocciati senza appello i film di rottura La cinquième saison e Spring Breakers (potenziale jolly per tutte, ma proprio tutte, le categorie), così come è rimasto inopinatamente a secco il traumatizzante Thy Womb di Brillante Mendoza. Ma del resto, fin dalle intenzioni il nuovo corso di Alberto Barbera nasceva sotto il segno dell’austerità e del basso profilo. E niente meglio di un’opera come Pietà, che invita “a resistere alla crudeltà del capitalismo che uccide gli esseri umani” (Kim Ki-duk dixit), avrebbe potuto ribadire il concetto.
Filippo Zoratti
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