Seconda Puntata: il documentario ci salverà
di Filippo ZorattiAbbiamo dato retta a Barbera, che ad inizio festival auspicava per tutti un percorso a zig zag, che attraversasse in diagonale tutte le direzioni. Così, dopo l’apertura “gravitazionale” di Alfonso Cuaron, ci siamo poco o nulla preoccupati del nome e della (presunta) importanza delle sezioni, perdendoci tra gli Orizzonti, le Giornate degli Autori e la Settimana della Critica. In verità, qualche scelta s’è rivelata forzata: è solo perdendo “Night Moves” che abbiamo scoperto, ad esempio, la scanzonata leggerezza dello svedese “We Are the Best”, incentrato su un gruppo di adolescenti innamorate del punk e disposte a tutto pur di poter continuare a cullare, dolcemente, il proprio sogno. E’ interessante notare come questa, assieme al folle giapponese “Why Don’t You Play in Hell” dell’altrettanto folle Sono Sion, sia una delle pochissime concessioni di genere comico in un festival che – almeno fino a questo momento – ha intrapreso la via del thriller psicologico con risvolti violenti, sia fisici che psicologici. E’ di nuovo rivolgendoci al Concorso che ci siamo imbattuti in “The Police Officer’s Wife”, del tedesco Philip Groning: tre ore tese e claustrofobiche, uno sfibrante massacro familiare incentrato sugli abusi perpetrati da un giovane padre di famiglia nei confronti della moglie impotente decisa a resistere per il bene della figlioletta. L’abuso è anche uno dei temi portanti dell’americanissimo “Joe”, che trascinandoci nella periferia yankee più cupa inquadra la lotta del ruvido ma dal cuore tenero Nicholas Cage con un padre/padrone che maltratta il proprio primogenito. Un percorso che sembra creato ad hoc, giacché anche in “Miss Violence” (al momento personale Leone d’Oro di chi scrive) a fare da cornice ad una agghiacciante vicenda familiare che sfocia persino nell’incesto c’è la Grecia contemporanea della crisi economica, livida e senza speranza. Per regalarci una boccata di ossigeno ci siamo allora concessi l’omaggio dedicato a William Friedkin per il suo Leone d’Oro alla Carriera, subito dopo la visione del capolavoro “Il salario della paura”. E ci siamo addirittura lanciati in sala per lo splatter “Wolf Creek 2”, acuto divertissement d’autore in salsa australiana. Il percorso però è stato anche accidentato: meglio stendere un velo pietoso ad esempio su “Kill your Darlings” con l’ex maghetto Daniel Radcliffe nei panni di Allen Ginsberg e su “Palo Alto”, esordio alla regia di Gia Coppola (nipote di) e opera confusa priva di spessore ma con molte velleità d’autore. Pur tuttavia continueremo a seguire le evoluzioni artistiche di James Franco, presente quest’anno come attore, come soggettista/sceneggiatore (“Palo Alto” è tratto da un suo libro di racconti) e come regista di “Child of God”. Una pellicola che se non altro resterà alla memoria per l’interpretazione “mimetica” dell’attore protagonista, il carneade Scott Haze. Ma, diciamocelo, ci stiamo nascondendo dietro ad un dito. Ad innalzare il livello qualitativo dell’intera manifestazione in verità quest’anno sono i documentari, presenti in modo trasversale in quasi tutte le sezioni. C’è l’imbarazzo della scelta, tra “The Armstrong Lie”, sull’affaire ciclistico dell’anno, “At Berkeley” del maestro Wiseman e i due carichi pesanti in Concorso, “The Unknown Known” di Morris e “Sacro GRA” di Rosi. Tralasciando gli omaggi a Tinto Brass, Bertolucci, Bergman, Lino Micciché… Detto fra le righe: la sensazione è che saranno proprio i prodotti non finzionali a rendere memorabile questa 70a edizione della Mostra. Un segnale tutt’altro che trascurabile, a poco più di 100 anni dalla nascita del Cinema.
Filippo Zoratti