Seconda Puntata: Gli Orizzonti della Mostra
di Filippo ZorattiCome era facilmente intuibile, il tridente formato da Sokurov (“Francofonia”), Gitai (“Rabin, the Last Day”) e Skolimovski (“11 Minutes”) ha risollevato quasi in toto le sorti del Concorso. Ci si rifà insomma ai grandi veterani, con la netta sensazione che sia arrivato il turno di Gitai per quanto concerne il Leone d’Oro: il suo “Rabin”, racconto di uno degli episodi più drammatici della storia israeliana, tocca tutte le corde necessarie per mettere a tacere le polemiche. Chi si ricorda il trionfatore dell’anno scorso – il bistrattato “Piccione seduto su un ramo” di Roy Andersson – sa che si tratta quasi di un percorso obbligato, nel momento in cui un grande autore decide di essere presente al Lido invece che a Berlino o Cannes, o magari Toronto. Un algoritmo che tutti conoscono ma di cui non si può parlare, che prevede anche lo step di un premio ad un film italiano e almeno un riconoscimento ad un’opera asiatica. Sul primo punto, solleviamo grosse perplessità: nessuno dei quattro italiani pretendenti sembra assolutamente potersi meritare un leoncino, un Gran Premio o una Coppa Volpi; mentre per quanto riguarda l’Oriente le speranze sono tutte riposte sul doc cinese “Behemoth”, poema civile allegorico che pure sembra essere tra gli outsider più quotati. La riabilitazione del documentario è stato uno degli scatti più significativi della gestione Barbera, come dimostrano i successi di “Sacro GRA” due anni fa e di “The Look of Silence” nel 2014. Indipendentemente dal futuro del medesimo Barbera (che con questa edizione chiude il suo quadriennio) non si possono non tenere in considerazione i cambiamenti apportati dal suo “basso profilo”: bando alla sovraesposizione panasiatica, occhi più aperti al mainstream e presa di coscienza dell’importanza dei nuovi media. Se quest’anno Venezia ha mancato l’appuntamento con le mini-serie, è altresì vero che in gara la presenza di “Beasts of No Nation” ha segnato un nuovo passaggio: oltre alla direzione di Cary Joji Fukunaga (quello di “True Detective”), la pellicola si segnala per la produzione e la distribuzione on line da parte di Netflix. Al di là del valore intrinseco del film in questione, l’accettazione di un prodotto del genere scuote dalla polvere che quasi per definizione ammanta l’idea stessa di kermesse festivaliera. Come già scritto nei giorni scorsi però, quello di Barbera non è di certo stato un percorso netto, ed è proprio in questa 72a annata che un nodo è venuto al pettine: lo scollamento fra le varie sezioni, totalmente prive di omogeneità. Tralasciando le “autonome” Giornate degli Autori e Settimana della Critica, il dramma si è consumato nella abnorme differenza di qualità proposta dal concorso e dai benemeriti Orizzonti. La scelta delle opere in gara sembra ormai aver ceduto alla mera funzione di vetrina, di facciata luccicante di cui parlare sulle prime pagine dei giornali e di cui poi dimenticarsi. Il Concorso 2015, purtroppo, non lascerà traccia di sé, semplicemente perché non ha assurto al suo ruolo di “termometro” dello stato del Cinema. Una caratteristica che si riscontra invece pienamente nei collaterali Orizzonti, mai come quest’anno degni di menzione: al posto dei bolsi “Equals” e “The Danish Girl” (buoni per un Fuori Concorso) ci sarebbero potuti tranquillamente stare l’iraniano “Wednesday, May 9”, l’israeliano “Mountain” e il danese “A War”. Sarebbe auspicabile trovare una maggiore coesione fra la prevedibilità dell’uno e l’innovazione dell’altro, un equilibrio “identitario” di comprensibile e ardua realizzazione ma di cui qua e là si intuiscono solide tracce. Il sottoscritto punta fortissimamente sui più che marginali “Heart of a Dog” di Laurie Anderson e “Desde Allà” dell’esordiente Lorenzo Vigas: perché più dei maestri sopraccitati darebbero senso alla poliedricità – tentata e non riuscita, ma necessaria – di Venezia 72.
Filippo Zoratti