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Cinema

Torino Film Festival 31^ edizione

TFF 2013 Seconda Puntata: alla ricerca dell’autorialità (perduta?)

di Filippo Zoratti

Com’era facilmente intuibile, l’attenzione del popolo cinefilo presente al TFF è stata quasi del tutto assorbita dalla sezione “New Hollywood”. La retrospettiva, fortemente voluta dal neo-direttore Paolo Virzì, non ha solo ripercorso tappe fondamentali della cinematografia americana già conosciute, ma si è soprattutto concentrata su opere ormai introvabili, ripescando autorialità colpevolmente dimenticate: “Un uomo a nudo” di Frank Perry, “Bob & Carol & Ted & Alice” di Paul Mazursky, “Medium Cool” di Haskell Wexler, “Electra Glide in Blue” di William Guercio… Ci sarebbe voluto un festival a parte, anche perché spesso nell’inevitabile gioco ad esclusione la preferenza rivolta alle prime visioni non è stata premiata. Deludono cocentemente “C.O.G.” (oltretutto in concorso), il canadese “Blood Pressure”, la commedia rosa “Enough Said – Non dico altro”, ultimo lavoro di James Gandolfini, “Luton”, ennesimo capitolo del Rinascimento artistico greco.

La lista è più lunga, ma forse vale la pena sottolineare ciò che di questa 31a edizione sarà bene ricordare. In cima alla lista i pesi massimi, ovvero gli autori già conosciuti ai quali rivolgersi a colpo sicuro. Spulciando il programma non ci siamo lasciati perdere Noah Baumbach (“Frances Ha”); “Inside Llewyn Davis” dei fratelli Coen, film denso di malinconia e umorismo; l’atteso “Only Lovers Left Alive”, anomalo vampire movie diretto da Jim Jarmusch, “La danza de la Realidad” del redivivo Jodorowsky, che torna alla regia dopo ben 23 anni. In poche parole: che si guardi al passato o al presente della cinematografia mondiale è cosa buona e giusta

La Plaga

rivolgersi ai grandi autori. E in fondo è proprio questo uno dei rischi maggiori di un festival che si propone come oasi per i nuovi registi, considerato il fortissimo interesse per le opere prime e seconde (che per regolamento sono le uniche a poter rientrare nella gara ufficiale): quello di creare una insanabile cesura fra novità e recuperi. Nel corso di un’intervista rilasciata qualche mese fa, il direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, sosteneva che non sono i film a scegliere i festival, ma che sia solo una questione di tempistiche. Se la pellicola è conclusa a febbraio andrà a Berlino, se lo è a maggio passerà a Cannes, se lo è a settembre andrà a Venezia, e così via. Un ragionamento che riaccende l’aperto scontro fra Torino e Roma.

La battaglia di Solferino

L’ingombrante evento capitolino si colloca pochissime settimane prima del Torino Film Festival e mai come quest’anno la sensazione è che il nuovo taglio “istituzionale” voluto da Muller abbia sottratto linfa vitale alla kermesse sabauda. Film quali “Her”, “Dallas Buyers Club”, “Tir” di Fasulo (vincitore del Marc’Aurelio d’Oro) sarebbero di sicuro passati a Torino, se solo Roma avesse deciso di collocarsi in un altro più consono momento dell’anno. Tralasciando i discorsi sulle differenze di budget (8 milioni per Roma, 2 e mezzo per Torino), la scorrettezza di fondo appare lampante. Battendosi per confermare il proprio posto alsole nel panorama saturo dei festival nazionali, Torino ha fatto dinecessità virtù. E anche se il compito è di anno in anno più arduo, i risultati del titanico sforzo si vedono. Meritano di essere almeno menzionati il già pluripremiato “Pelo Malo”, il quotatissimo “La battaglia di Solferino”, lo spagnolo “La Plaga”, l’italiano “Il treno va a Mosca” e il revenge movie “Blue Ruin”. Si può parlare di passato (le retrospettive) e presente (gli omaggi ai grandi contemporanei), ma Torino nella sua continua attività di ricerca fa qualcosa di più: osserva il futuro del cinema.

Filippo Zoratti

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Torino Film Festival 31^ edizione

 TFF 2013 Prima Puntata: Virzì, atto primo

 di Filippo Zoratti

Come sarà il Torino Film Festival del neo-direttore artistico Paolo Virzì? Sarà tradizionalista o più apertamente pop? Ricalcherà il segno lasciato dai predecessori Nanni Moretti e Gianni Amelio o sterzerà verso una visione dell’industria Cinema più simile alla cultura e allo stile del regista livornese? Chi, nei giorni precedenti all’inizio della kermesse, ha cercato di “leggere” il ricchissimo programma interpretandone i segni, s’è trovato davanti una quantità – e qualità – di sollecitazioni di non immediata e univoca comprensione. Lui, il cineasta divenuto a sorpresa responsabile artistico, sembra mettere subito le mani avanti: “Voglio capire come andrà questa edizione, e poi decidere se continuare o meno. Dopotutto, fare il direttore non è il mio mestiere”. Del resto, smuovere la fortissima e consolidata identità di un evento come quello torinese (che per regolamento accetta in gara solo opere prime e seconde) non è impegno da poco. E non è da poco neanche mettere a frutto i “soli” due milioni e 400 mila euro di budget. Il primo colpo d’occhio è tutto per la titanica retrospettiva sulla New Hollywood, talmente articolata da durare due edizioni: da “Gangster Story” a “L’ultimo spettacolo”, da “Easy Rider” ad “Un uomo da marciapiede”, fino a “Woodstock” e “Pat Garrett e Billy the Kid”. Il piatto è ricchissimo (36 titoli) e Virzì non nasconde la sua emozione nel poter presentare sotto la sua egida le opere che hanno segnato la propria generazione. Torino conservatrice quindi? Mica tanto, dato che dall’altra parte della barricata spunta la nuova sezione “Big Bang Tv”, dedicata alla davvero non più trascurabile serialità televisiva. Dopo Venezia, Cannes e Sundance, anche il TFF si apre a miniserie e pilot d’autore: “House of Cards”, prodotta da David Fincher e interpretata da un luciferino Kevin Spacey; “Top of the Lake”, scritta da Jane Campion; “Southcliffe”, lavoro britannico già passato a Toronto. L’idea di fondo è quella di mantenere viva l’anima più cinefila insita nel dna della manifestazione, aprendo però all’innovazione tecnologica e all’entertainment vivace, come dimostra anche la scelta del film di apertura, ricaduta sul goliardico “Last Vegas”. La trentunesima edizione (ancora nelle parole del direttore) sulla carta si propone come un unico grande film fatto di voci diverse. Tantissime voci – pure troppe? – considerando l’importanza delle sezioni “Festa Mobile”, che per qualcuno è il vero concorso, e “Onde”, che ospiterà fra gli altri il vincitore del Festival di Locarno “Storia della mia morte” di Albert Serra, “Hotel del l’Univers” di Tonino De Bernardi e l’ormai imprescindibile cinematografia greca, con “Luton” e “To the Wolf”. E la gara ufficiale? C’è, ma come ogni anno corre forse il rischio di restare schiacciata dal resto delle proposte. L’attesa più significativa è per l’esordio alla regia di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, ma gli sguardi sono anche puntati sul già favorito “La battaglia di Solferino”, sullo spagnolo “L’infestazione – The Plague” e su “Pelo Malo”, vincitore dell’ultimo Festival di San Sebastian. A riunire tradizione e innovazione dunque c’è uno spirito vivace e aperto alle contaminazioni, che addirittura comprenderà spettacoli di strada e concerti, con la BandaKadabra che suonerà per la città. Torino sembra muoversi all’opposto dell’acerrima nemica Roma, che con Marco Muller pare aver intrapreso un nuovo percorso più “serio” e compito. Virzì porta al Torino Film Festival una ventata di leggerezza (che non significa superficialità) e vitalità. Un ottimo proposito, che tuttavia non deve assolutamente mettere in secondo piano il cuore pulsante dell’evento: i film.

Filippo Zoratti

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70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013

Quarta (e ultima) Puntata: and the winners are…

di Filippo Zoratti
 

                    LEONE D’ORO: Sacro GRA di Gianfranco Rosi (Italia 2013)

Scandalo al Festival di Venezia: vince un documentario. Nessuno – ma proprio nessuno – avrebbe puntato un centesimo sulla vittoria finale di “Sacro GRA”. Ma non perché l’opera di Rosi non sia degna di attenzione, anzi; il problema di fondo è il pregiudizio globale da sempre vivo nei confronti dei lavori non strettamente narrativi. Va bene, abbiamo pensato, in concorso ci sono due doc (oltre a Rosi, “The Unknown Known” di Morris su Rumsfeld), ma più di così non potranno ottenere. E invece, con un colpo di coda da rivoluzionario consumato, Bernardo Bertolucci premia le cronache dal Grande Raccordo Anulare romano, che intersecano sette micro-vicende riprese dal regista per ben due anni (più otto mesi di montaggio). Pare che il mosaico tragicomico che prende forma e contenuto davanti ai nostri occhi si ispiri al romanzo di Calvino “Le città invisibili”, e difatti l’umanità filmata è inattesa e nascosta: dal palmologo che dedica tutta la sua vita alle piante al nobile piemontese decaduto che vive in un monolocale, fino alla prostituta non più giovanissima che canticchia Gianna Nannini e all’infermiere che lavora in ambulanza e assiste la madre anziana. La periferia capitolina si fa sineddoche del mondo, e con straordinario tocco poetico e gusto agrodolce il regista ci concede il lusso del distacco: non inquina le prove, non ammorba lo spettatore con inutili e dannose voci off. Bertolucci e la giuria veneziana – pur se non all’unanimità – hanno lanciato un sasso, ora speriamo che tutti gli altri non ritirino la mano.

                    LEONE D’ARGENTO: Miss Violence di Alexander Avranas (Grecia 2013)

C’è chi lo chiama Rinascimento, chi Nouvelle Vague e chi ancora Rivoluzione. Una cosa è certa: il nuovo cinema greco è uno dei più densi, metaforici e “artistici” dell’ultimo decennio. Lo avevamo già compreso grazie a “Dogtooth”, “Attenberg” ed “Alpis”: il centro dell’attenzione è la perdita di identità dell’individuo, schiacciato e castrato dalla crisi e dal crollo delle istituzioni. Il sipario di “Miss Violence” si apre su un interno familiare felice, perché si festeggia il compleanno dell’undicenne Aggeliki. Poi il disastro: Aggeliki esce dal salotto, si sporge dal terrazzo e si butta nel vuoto. Spiega il regista: “Vivendo in una società in cui non si vuole guardare oltre le apparenze, saremo sempre oppressi, non ci sarà mai nessuno che vuole fare la rivoluzione”. Infatti nessuno avrà il coraggio di opporsi alla tirannia del capofamiglia, uomo dall’aspetto mite che sottomette moglie, figlia 30enne e nipoti al suo terrificante schema gerarchico. La violenza fisica e psicologica si insinuerà lenta ed inesorabile, attraverso inquadrature fisse e una cura chirurgica del “non visto”. Segue dibattito: quanto è pornografica la visione di “Miss Violence”? Quanto emula il raggelato cinismo di Michael Haneke? Noi ci fermiamo prima, osservando due opposti modi di utilizzare il mezzo cinematografico per affrontare la crisi in atto: in Grecia ci sbattono la faccia contro; in Italia si aggira l’ostacolo, sfornando commedie per “distrarre” il pubblico. “Questa è l’Italia del futuro, un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte” diceva la serie tv “Boris”. Ed è questo che ci deve davvero spaventare.

                    GRAN PREMIO DELLA GIURIA: Stray Dogs di Tsai Ming-liang (Cina/Francia 2013)

A Venezia c’è sempre spazio per il cinema asiatico, e questo è un bene. Di più: a Venezia c’è sempre spazio almeno per un premio ad un film proveniente dall’Oriente, e questo non è detto che sia in assoluto ogni anno un bene. Su “Stray Dogs” ci si potrebbe dilungare per ore, perché qualità e difetti coincidono, chi lo ama lo fa per gli stessi motivi per cui altri lo detestano. Tsai non ci aiuta, ma è tutto voluto: a Taipei un disperato nucleo familiare vagabonda per la città. Il padre lavora come “reggicartello”, schiaffeggiato dal vento, dalla pioggia e dalla solitudine; i due figli vagano senza una meta lavandosi nei bagni pubblici; la donna (che non è la madre) lavora in un supermercato, e si unisce al gruppo forse non animata dalle migliori intenzioni. Intriso di tristezza e depressione, “Stray Dogs” procede per “quadri umani” di estenuante lirismo e lentezza. Siamo ben disposti ad accogliere i tempi lunghi, i primi piani fissi di venti minuti, la pressoché mancanza di dialogo… ma devono avere sempre un significato, il gioco cioè deve – dovrebbe – valere sempre la candela. Al di là della scarsa originalità della storia, la sensazione è che la regia sia più di maniera di quanto vorrebbe apparire, coperta e salvata da un uso magistrale della fotografia e indubbiamente illuminata da alcune sequenze potentissime (la scena del cavolo, l’ultimo quarto d’ora inchiodato nella ripresa dei due adulti che fissano un dipinto su un muro). Ma siamo sul crinale di un’operazione ingiudicabile e intollerabile, e sorge il dubbio che il premio sia più dedicato alla carriera dell’autore (che ha dichiarato che non girerà più) che alla qualità dell’opera in sé.

Filippo Zoratti

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70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013

Terza Puntata: Venezia anno zero (?)

di Filippo Zoratti

Il Leone d’Oro consegnato da Bernardo Bertolucci al documentario italiano “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi non è solo un gesto provocatorio e coraggioso, ma possiede persino un’aura rivoluzionaria ed eversiva. L’espressione compiaciuta del maestro parmense subito dopo la proclamazione dice tutto: ad inizio festival era a caccia di sorprese, e ha finito col sorprenderci tutti. Nel toto-Leone dei giorni precedenti avevamo considerato mille opzioni possibili, dal trionfo del cinema greco giunto finalmente al pieno sviluppo narrativo al premio “obbligato” per un Miyazaki che dichiara il proprio ritiro, passando attraverso la definitiva consacrazione del 24enne franco/canadese Xavier Dolan e la perfezione stilistico-formale della “Philomena” di Frears. Mai avremmo intuito che il riconoscimento più importante andasse ad un’opera non di finzione, e men che meno che tra i due documentari in gara potesse spuntarla quello sul grande raccordo anulare invece di quello sul diplomatico statunitense Donald Rumsfeld (“The Unknown Known”). Dicevamo, trattasi di decisione potente e ribelle. Ribelle anzitutto proprio nei confronti della “medietà” straordinariamente rappresentata dal sopraccitato “Philomena”, film perfetto e inattaccabile, né eccelso né criticabile, macchina da guerra atta ad accontentare pubblico e addetti ai lavori in egual misura. Ma provocazione fa rima anche con rinnovamento, e da questo punto di vista Bertolucci e la giuria – formata fra gli altri da Andrea Arnold, Martina Gedeck, Pablo Larrain, Carrie Fisher e Ryuichi Sakamoto – hanno capito tutto. Nell’anno del definitivo e tangibile superamento da parte del Toronto Film Festival (che ha più denaro, più visibilità, più blasone) la scossa era necessaria come l’ossigeno, per sancire lo stato di salute di un evento imprescindibile ma in palese difficoltà. Venezia ha scelto la propria via, e a ben guardare ogni premio assume i connotati di una precisa dichiarazione di intenti fatta a muso duro nei confronti dei detrattori e dei malpensanti. Vince l’Italia perché i prodotti italiani sanno e possono essere ancora competitivi, e sono in grado di intraprendere nuove e diverse vie creative lontane dall’anestesia totale delle commedie buoniste; ma Venezia sa riconoscere anche il respiro e l’urgenza della cinematografia greca, esplosa quest’anno con la potenza disperata e iperrealista di “Miss Violence”. La Mostra si fa madrina dei vari Lanthimos, Tsangari, Avranas, così come da decenni è roccaforte delle produzioni asiatiche di Ang Lee, Jia Zangke, Brillante Mendoza. Merito di quest’ultima caratteristica va di sicuro al predecessore Marco Muller, ma Barbera e il suo staff hanno saputo raccogliere il testimone pur ridimensionandone l’eccessiva esposizione. Quest’anno è stata la volta di Tsai Ming-liang col discusso – e discutibile, a modesto parere di chi scrive – “Stray Dogs”, Gran Premio della Giuria d’autore che riaccende una mai sopita polemica: a cosa servono i festival di cinema? Sebbene questa 70a edizione porti “in nuce” i tratti di un nuovo inizio più consapevole e maturo non si può negare che il palmares ci spinga all’ennesima riflessione su di un’apertura al pubblico che spesso manca. E’ una classifica finale “museale”, scrive Paolo Mereghetti dalle pagine del Corriere della Sera, che ci porta al vicolo cieco della chiusura nei confronti di chi i film li vuole fruire nelle sale. Ma siamo proprio sicuri che a decidere l’affluenza degli spettatori al cinema sia il podio di un festival e non piuttosto un mercato drogato, vecchio e instabile che non riesce a stare al passo coi tempi della digitalizzazione, del download e dello streaming?

Filippo Zoratti

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70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013

Seconda Puntata: il documentario ci salverà

di Filippo Zoratti

Abbiamo dato retta a Barbera, che ad inizio festival auspicava per tutti un percorso a zig zag, che attraversasse in diagonale tutte le direzioni. Così, dopo l’apertura “gravitazionale” di Alfonso Cuaron, ci siamo poco o nulla preoccupati del nome e della (presunta) importanza delle sezioni, perdendoci tra gli Orizzonti, le Giornate degli Autori e la Settimana della Critica. In verità, qualche scelta s’è rivelata forzata: è solo perdendo “Night Moves” che abbiamo scoperto, ad esempio, la scanzonata leggerezza dello svedese “We Are the Best”, incentrato su un gruppo di adolescenti innamorate del punk e disposte a tutto pur di poter continuare a cullare, dolcemente, il proprio sogno. E’ interessante notare come questa, assieme al folle giapponese “Why Don’t You Play in Hell” dell’altrettanto folle Sono Sion, sia una delle pochissime concessioni di genere comico in un festival che – almeno fino a questo momento – ha intrapreso la via del thriller psicologico con risvolti violenti, sia fisici che psicologici. E’ di nuovo rivolgendoci al Concorso che ci siamo imbattuti in “The Police Officer’s Wife”, del tedesco Philip Groning: tre ore tese e claustrofobiche, uno sfibrante massacro familiare incentrato sugli abusi perpetrati da un giovane padre di famiglia nei confronti della moglie impotente decisa a resistere per il bene della figlioletta. L’abuso è anche uno dei temi portanti dell’americanissimo “Joe”, che trascinandoci nella periferia yankee più cupa inquadra la lotta del ruvido ma dal cuore tenero Nicholas Cage con un padre/padrone che maltratta il proprio primogenito. Un percorso che sembra creato ad hoc, giacché anche in “Miss Violence” (al momento personale Leone d’Oro di chi scrive) a fare da cornice ad una agghiacciante vicenda familiare che sfocia persino nell’incesto c’è la Grecia contemporanea della crisi economica, livida e senza speranza. Per regalarci una boccata di ossigeno ci siamo allora concessi l’omaggio dedicato a William Friedkin per il suo Leone d’Oro alla Carriera, subito dopo la visione del capolavoro “Il salario della paura”. E ci siamo addirittura lanciati in sala per lo splatter “Wolf Creek 2”, acuto divertissement d’autore in salsa australiana. Il percorso però è stato anche accidentato: meglio stendere un velo pietoso ad esempio su “Kill your Darlings” con l’ex maghetto Daniel Radcliffe nei panni di Allen Ginsberg e su “Palo Alto”, esordio alla regia di Gia Coppola (nipote di) e opera confusa priva di spessore ma con molte velleità d’autore. Pur tuttavia continueremo a seguire le evoluzioni artistiche di James Franco, presente quest’anno come attore, come soggettista/sceneggiatore (“Palo Alto” è tratto da un suo libro di racconti) e come regista di “Child of God”. Una pellicola che se non altro resterà alla memoria per l’interpretazione “mimetica” dell’attore protagonista, il carneade Scott Haze. Ma, diciamocelo, ci stiamo nascondendo dietro ad un dito. Ad innalzare il livello qualitativo dell’intera manifestazione in verità quest’anno sono i documentari, presenti in modo trasversale in quasi tutte le sezioni. C’è l’imbarazzo della scelta, tra “The Armstrong Lie”, sull’affaire ciclistico dell’anno, “At Berkeley” del maestro Wiseman e i due carichi pesanti in Concorso, “The Unknown Known” di Morris e “Sacro GRA” di Rosi. Tralasciando gli omaggi a Tinto Brass, Bertolucci, Bergman, Lino Micciché… Detto fra le righe: la sensazione è che saranno proprio i prodotti non finzionali a rendere memorabile questa 70a edizione della Mostra. Un segnale tutt’altro che trascurabile, a poco più di 100 anni dalla nascita del Cinema.

Filippo Zoratti

Cinema

70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia 2013


Prima Puntata: il Festival ai tempi della crisi

di Filippo Zoratti

Chissà dove ci vuole portare Alberto Barbera. Quella che l’anno scorso era parsa ai più come una scelta “attendista” e di passaggio per il dopo Muller, ha assunto via via dei contorni più definiti e marcati. L’identità e l’impronta del nuovo Direttore ci sono, iniziano a farsi sentire forti e chiare. Barbera non è una sprovveduta vittima sacrificale finita centrifugata nella crisi economica e culturale degli anni Duemila; Barbera la cavalca con disinvoltura, la crisi. Lo si capisce – prima ancora che dalle sue interviste e dagli interventi fatti in queste settimane – dall’impianto deciso per il “suo” festival: meno film in rassegna anzitutto, una scelta ampiamente controcorrente rispetto alla bulimia della gestione precedente; una conseguente maggiore attenzione ai percorsi autoriali, ai recuperi (quella sezione Venezia Classici che da ultimo ripiego spesso diventa rifugio e riscoperta per i cinefili presenti al Lido); l’imposizione – qualcuno dirà “forzata” – di un basso profilo persino nelle strutture e nelle architetture, con accessi meno restrittivi ed elitari. Si potrebbe anche far finta di niente, per carità; ma sarebbe persino ottuso non accorgersi che oggi a dominare lo scenario internazionale sono Cannes e Toronto. Questo non significa che agli altri vadano gli scarti, anzi: agli altri va la ricerca di nuovi stimoli, di una qualità che spesso “dovrebbe” essere insita nel dna delle kermesse festivaliere ma di cui spesso non v’è traccia. Insomma, in poche parole ci vogliono coraggio e lungimiranza per stare a galla, per gettare il cuore oltre l’ostacolo. Decidere che il film di apertura possa essere Gravity, ad esempio, è un clamoroso gesto di coraggio. Il nuovo film di Alfonso Cuaròn con protagonisti George Clooney ma soprattutto Sandra Bullock è un nuovo punto di approdo e (ri)partenza per la fantascienza, un prototipo cui in futuro si dovrà fare riferimento per il genere. Gravity è “sense of wonder”, spettacolo mozzafiato ed esistenziale con un uso della stereoscopia mai visto prima. Iniziare con un prodotto di questo tipo – che pur gioca amabilmente con il mainstream senza esserne vittima – significa aver capito “dove tira il vento”, cosa è e cosa in pochissimi anni sarà il cinema dopo il Big Bang digitale. Il futuro è oltre la sala, e Barbera scoperchia il vaso di Pandora per mostrarci le sue nuove e straordinarie potenzialità. Ma il futuro porta anche al documentario, spesso associato – chissà perché – ad un’idea polverosa ed antica di fruizione cinematografica. A memoria non si ricorda un’edizione così piena di opere non di finzione, su tutti i lavori in Concorso di Morris e Rosi (rispettivamente The Unknown Known e Sacro GRA). Basta davvero capire che siamo in un’epoca confusa, ma che questo non significa che il bicchiere debba necessariamente essere mezzo vuoto. E’ così che, nell’eterna diatriba sul senso dei festival, le rassegne smettono di essere vetrine promozionali e si trasformano in campo d’esplorazione. E’ lo stesso Barbera ad affermarlo con decisione, consigliando durante la Mostra “un percorso a zig zag, che attraversi in diagonale tutte le direzioni”. Perdendo qualcosa per strada, potremmo stupirci di nuovi percorsi. Questa è la gestione Barbera, questo il suo modo di intendere i Festival al tempo della crisi. Nell’attesa di capire se Venezia tornerà ad incidere come un tempo sull’industria cinematografica (ovvero ad avere un peso sugli incassi prossimi venturi, come puntualmente sottolinea Roy Menarini in un suo articolo per la rivista on line Mediacritica) tutto questo ci sembra un ottimo inizio. La difesa è – e sempre sarà – l’attacco. E noi tifiamo apertamente per il Direttore Barbera.

Filippo Zoratti

Cinema

All’Ombra della Mole Appunti sul 28. Torino Film Festival Quarta (e ultima) Puntata: and the Winners are… di Filippo Zoratti

 

All’Ombra della Mole
Appunti sul 28. Torino Film Festival
Quarta (e ultima) Puntata: and the Winners are…

di Filippo Zoratti

 

MIGLIOR FILM del 28. TORINO FILM FESTIVAL, Concorso Internazionale Lungometraggi:

 

-    WINTER’S BONE. UN GELIDO INVERNO (Debra Granik, Usa 2010)

 

Per le semi-deserte vie dell’ultimo giorno di festival (ma le fonti “ufficiali” e l’organizzazione parlano di un incremento di pubblico e incasso senza precedenti, chissà) la voce si è sparsa in fretta, ben prima della proclamazione ufficiale: ha vinto l’americano Winter’s Bone. A conti fatti la scelta migliore, perchè la storia della 17enne Ree alla disperata ricerca del padre scomparso per non perdere la casa in cui accudisce i due fratellini e la madre catatonica ha il respiro del grande cinema. Lo si è capito fin dalla prima visione: Winter’s Bone è un piccolo grande gioiello di anti-retorica, immerso in un dolente e disagiato realismo che non fa sconti e asciuga ogni orpello narrativo mostrandoci i fatti, punto. La tenace disperazione della sua protagonista (interpretata da Jennifer Lawrence, che si porta a casa anche il premio per la Migliore Attrice), l’omertà di un paese di montagna corrotto e morboso, la strategia del terrore innalzata dai vicini, l’insospettabile e truce muro della solidarietà femminile. Per Ree, moderna Cappuccetto Rosso in un mondo popolato di lupi cattivi, la risoluzione della ricerca sarà il doloroso ma necessario passaggio alla vita adulta. Una vita violenta e intollerabile, eppure senza alternative, unica via possibile per la sopravvivenza.

 

PREMIO DELLA CRITICA – PREMIO FIPRESCI:

 

-    SMALL TOWN MURDER SONGS (Ed-Gass Donnelly, Canada 2010)

 

Una sinfonia per immagini. L’opera seconda del canadese Donnelly non è una narrazione incorniciata da una colonna sonora, ma l’opposto. Del resto, il titolo parla chiaro. Quale potrebbe essere la miglior musica di sottofondo per un’indagine sull’omicidio di una ragazza avvenuto in un piccolo villaggio dell’Ontario? Un gospel-rock, ad esempio (interpretato dai Bruce Peninsula), potente ed evocativo trait d’union che sottolinea i volti (quello tormentato del protagonista Peter Stormare, quello intenso e malinconico di Jill Hennessy) e i paesaggi silenti e complici. La musica si (con)fonde con le immagini in slow motion, con le didascalie che quasi suddividono il film in capitoli. E senza rendercene conto noi spettatori scopriamo un mondo: scopriamo il passato travagliato del poliziotto Walter, scopriamo una comunità in cui nessuno può dirsi innocente, scopriamo una religiosità di facciata, che sotto la superficie nasconde demoni sopiti e pronti a riemergere. Ma soprattutto scopriamo l’impressionante originalità di questo Small Town Murder Songs, noir esistenziale che se da un lato ricorda Egoyan e i fratelli Coen, dall’altro li supera, mostrandoci qualcosa di mai visto, inaspettato e per questo ancora più sorprendente.

 

Gli altri Premi:

 

-    Premio Speciale della Giuria ex aequo a LES SIGNES VITAUX (Sophie Deraspe, Canada 2009) e LAS MARIMBAS DEL INFIERNO (Julio Hernandez Cordon, Guatemala 2010)

 

-    Premio per la Migliore Attrice ex aequo a Jennifer Lawrence (Winter’s Bone) ed Erica Rivas (Por Tu Culpa)

 

-    Premio per il Miglior Attore a Omid Djalili (The Infidel. Infedele per Caso)

 

-    Premio del Pubblico a HENRY di Alessandro Piva (Italia 2010)

 

-    Premio per il Miglior Documentario Italiano a BAKROMAN (Gianluca e Massimo De Serio, Italia 2010)

 

-    Premio Cipputi per il Miglior Film sul mondo del lavoro a LAS MARIMBAS DEL INFIERNO (Julio Hernandez Cordon, Guatemala 2010)

 

-    Premio Scuola Holden a WINTER’S BONE (Debra Granik, Usa 2010)

 

Filippo Zoratti

 

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All’Ombra della Mole Appunti sul 28. Torino Film Festival – Terza Puntata

 

All’Ombra della Mole
Appunti sul 28. Torino Film Festival – Terza Puntata

di Filippo Zoratti

Passato in rassegna anche il 16° e ultimo film in concorso – Henry di Alessandro Piva – non rimane che attendere i verdetti finali, ai quali seguirà l’anteprima di Hereafter di Clint Eastwood (qualche audace in questi giorni ha provato a far circolare la voce di una sua presenza a Torino, subito smentita), evento di chiusura del TFF in uscita nelle sale italiane a gennaio.

 

Unico lungometraggio italiano della competizione, Henry (voto 4 ½) è una scelta quantomeno curiosa, soprattutto alla luce delle mille polemiche passate e presenti (e future) sullo scarso valore delle opere di casa nostra portate in giro ai festival internazionali. Strutturato come un polizi(ott)esco, l’opus numero tre di Piva (girandola metropolitana di omicidi, scontri fra gang e faide per la conquista del mercato dell’eroina) soffre della (troppo spesso) solita “ansia da prestazione” italica: sceneggiatura elaborata e macchinosa spesso risibile, mix di recitazioni professionali e amatoriali, tensione verso il modello americano vanificato da provincialismi vari e pretesa di prendersi dannatamente sul serio. Uno sconclusionato buco nell’acqua, che chissà se vedrà mai la luce della distribuzione.

 

Gli assi nella manica calati prima della fine sono stati altri, nel ricco carnet proposto dal direttore Amelio e dai suoi collaboratori. Considerando che alla gara sono ammesse solo le opere prime, seconde e terze, vale la pena puntare forte su Small Town Murder Songs (voto 8) del canadese Ed Gass-Donnelly, che alla sua seconda regia ci regala un epico thriller costruito intorno ad una sorprendente colonna sonora gospel-rock e a evocative scene al ralenty; sul belga Vampires (voto 8), folle terzo lavoro dell’altrettanto folle regista Vincent Lannoo, strepitosa satira politica che mescolando documentario, b-movie e commedia inquadra la vita quotidiana della famiglia Saint-Germain, vampiri moderni annoiati dalla propria immortalità; e sul già menzionato (puntata numero 2 di questo diario di viaggio) Winter’s Bone (voto 7 ½).

 

E ancora altri scatti, altre istantanee che nel bene e nel male aiuteranno a farci ricordare questa 28a edizione: Jack Goes Boating (voto 7) di Philip Seymour Hoffman, che all’esordio dietro la macchina da presa dimostra attraverso la storia dell’ impacciato Jack di non temere il cinema sentimentale (laddove ben strutturato e non fine a se stesso) e di inseguire già un suo personale percorso classico; Burlesque (voto 5), tripudio di paillettes e visioni patinate con protagoniste le icone gay Cher e Christina Aguilera (un’icona anche in colonna sonora: Madonna), altra faccia della medaglia dell’iperrealista Tournée (voto 7 ½) di Amalric; la doppietta indie-pendente formata da Cyrus (voto 6) e Super (voto 6 ½) con l’irresistibile overacting di Jona Hill (il grassottello di Suxbad) ed Ellen Juno Paige; e infine gli incontri, quello con un al solito incontenibile Paolo Rossi (per la presentazione di Ridotte Capacità Lavorative, docufilm surreale sugli operai Fiat di Pomigliano d’Arco, voto 6+) e quello con Carlo Verdone, giovane 60enne amante di Fellini e della commedia all’italiana di e con Alberto Sordi.

 

Ed ora, a pochi centimetri dal traguardo, non resta che attendere e capire se dare o meno retta ai rumors dell’ultim’ora, che danno come favoriti il giapponese Last Chestnuts (critica), breve ma intensissima ricerca di un figlio da parte di una commovente e pudica madre, e The Bang Bang Club (pubblico), storia vera – ma assai romanzata – di 4 giovani reporter fotografici nel Sud Africa pre-Mandela martoriato dall’Apartheid.

 

Alla giuria capitanata da Marco Bellocchio l’ardua sentenza.

 

Filippo Zoratti

 

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All’Ombra della Mole Appunti sul 28. Torino Film Festival Seconda Puntata di Filippo Zoratti

All’Ombra della Mole
Appunti sul 28. Torino Film Festival Seconda Puntata

di Filippo Zoratti

 

 

A poco più di metà festival si può già iniziare a tirare qualche somma di questa 28a edizione. Il concorso ufficiale, ad esempio, ha forse tradito per ora le aspettative, regalandoci un unico vero “indimenticabile”: Winter’s Bone di Debra Granik (voto 7 ½), potente storia di violenze e desolazioni esistenziali già vincitrice del Sundance. Un film asciutto e anti-retorico, tutto caricato sulle spalle della sua protagonista Ree Dolly (Jennifer Lawrence), diciassettenne cresciuta troppo in fretta per necessità alla disperata ricerca del padre. Un noir, un thriller, una ricognizione dolente e spaventosa di un’umanità alla deriva. Un Gelido Inverno – questo forse il titolo italiano del film all’uscita in sala –  è fin d’ora in pole position per la vittoria finale. Anche perchè dietro a lui c’è un po’ il vuoto. In queste giornate abbiamo assistito a cocenti delusioni (The Bang Bang Club, voto 4), a lavori “medi” privi dello slancio necessario per farsi notare (Soulboy, voto 6) e ad opere troppo strambe e weirdo per poter aspirare ad un’ampia (eppure magari meritata) visibilità.


Winter’s Bone – Jennifer Lawrence
 

The Infidel (voto 5) parte bene e pare proseguire meglio, come una salace e corrosiva commedia yiddish a là Woody Allen. Gag da commedia slapstick e stereotipi culturali messi al muro, per parlare di un tranquillo padre di famiglia musulmano che scopre di essere stato adottato e di essere in realtà ebreo. Ma a scherzare col fuoco spesso ci si brucia, e il lavoro del regista Appignanesi finisce esso stesso per scadere biecamente nei più banali clichè e luoghi comuni del caso, con un happy zuccheroso ending che ci fa immediatamente dimenticare quanto di buono era stato costruito nella prima ora.

Per la categoria “bizzarro movies” merita di essere perlomeno menzionato poi il guatemalteco Las Marimbas del Infierno (voto 7). La vicenda di Don Alfonso suonatore di marimba (strumento a percussione tradizionale dell’America Centrale) che perso il lavoro fonda un gruppo heavy metal col figlioccio Chiquilin e col medico ex metallaro satanista Blacko è un tuffo nel grottesco e nel surreale, talmente assurdo da poter sembrare reale. La miseria della messinscena e alcune laconiche sequenze che sfiorano la Poesia (il pianto di Chiquilin, la scena finale) lasciano il segno. Las Marimbas è un outsider malinconico e senza speranza, che cresce col passare del tempo, sedimentandosi nella nostra memoria.

Meglio della gara nel suo insieme hanno fatto le sezioni collaterali. Prende quota in particolare il già menzionato Rapporto Confidenziale, incentrato sull’horror contemporaneo, che scopriamo essere amante della musica (Suck, voto 6 ½, venato di sarcasmo vampiresco e con le partecipazioni di Alice Cooper, Iggy Pop e Moby) e di inquietudini quotidiane verosimili e per questo ancora più terrorizzanti (Outcast, voto 7, per certi versi simile al capolavoro Lasciami Entrare).

E si fa strada anche la piccola ma sempre più seguita dal pubblico sezione Figli e Amanti, che ospita 5 registi e altrettanti film cult che ne hanno ispirato la carriera: L’Angelo Sterminatore (Saverio Costanzo), If… (Daniele Luchetti), Cineocchio (Dario Argento), Il Lungo Addio (Carlo Mazzacurati) e Lo Sceicco Bianco (Carlo Verdone).

Nota a margine: mentre tutto scorre il Torino Film Festival si ferma per un attimo e omaggia il primo dicembre Mario Monicelli, con la proiezione di I Compagni. Un omaggio doveroso, per un maestro della regia italiana che ha deciso di uscire di scena senza troppe parole e con orgoglio. Perchè ci vuole coraggio per andarsene in modo spettacolare.

Filippo Zoratti

Cinema

All’Ombra della Mole Appunti sul 28. Torino Film Festival Prima Puntata di Filippo Zoratti

All’Ombra della Mole
Appunti sul 28. Torino Film Festival Prima Puntata

di Filippo Zoratti

 

 

Sfogliando il (corposo) programma del 28. Torino Film Festival la prima cosa che balza all’occhio è la varietà della proposta. Un’eterogeneità intelligente, che accoglie dentro di sé una ricerca e una curiosità capillare verso i generi, i modi di fare cinema, il multiculturalismo spaziale e temporale.

I due anni di reggenza di Nanni Moretti (edizioni 25 e 26, quella del capolavoro Tony Manero di Pablo Larrain) hanno ridato lustro pubblicitario alla kermesse, che è un bene. Anche se ora il rovescio della medaglia è una minore risonanza e attenzione nei confronti del nuovo direttore Gianni Amelio. Ed è un peccato, perchè Amelio (assieme al vice direttore Emanuela Martini e ai suoi consulenti per la selezione Alberione, Bocchi, Grespi, Morreale, Pedroni) sta lavorando bene. Anzi, meglio, rispetto alle attese iniziali. Il suo TFF è indipendente e slegato dai giochi di potere, alla ricerca dell’autosufficienza e della maggior autonomia possibile per crearsi la propria nicchia e stabilire le proprie inconfondibili caratteristiche nel panorama italico.

 

A ben pensarci è forse proprio la lontananza dai riflettori, dal gossip e dai tappeti rossi – ripudiati in nome di più cinefili e colti “incontri” con registi e attori – a fare la forza di Torino, a renderla un’isola felice e autarchica (ricordando ancora una volta Moretti).

    

L’evento sabaudo apre col francese Contre Toi di Lola Doillon, dramma d’interni interpretato da una gigantesca Kristin Scott Thomas, e chiude con l’anteprima italiana di Hereafter, ultima fatica romantica ed inaspettatatamente sovrannaturale del maestro Clint Eastwood. In mezzo ai due estremi scorre il fiume, anzi i fiumi delle varie sezioni: Festa Mobile, sorta di “fuori concorso” che quest’anno ospita gli ultimi attesi lavori di Danny Boyle (127 Hours), Gregg Araki (Kaboom, già passato a Cannes) e Mathieu Amalric (il malinconico Tournée), oltre all’esordio alla regia di Philip Seymour Hoffman (Jack Goes Boating) e al già (s)cult Burlesque, con Cher e Christina Aguilera; Rapporto Confidenziale, focus sull’horror contemporaneo che partendo da Carpenter e dal suo The Ward indagherà le ultime derive del genere con The Last Exorcism, Outcast (dove il realismo sociale di Ken Loach incontra l’orrore), l’ironico Suck e Vanishing on 7th Street di Brad “uomo senza sonno” Anderson; Figli e Amanti, breve ripasso di Storia (storie) del Cinema, dal Cineocchio vertoviano al Lungo Addio altmaniano, passando attraverso L’Angelo Sterminatore di Bunuel e il recupero di If… di Lindsay Anderson, film sulla ribellione dei giovani girato in “presa diretta” (anno domini 1968); e infine le due retrospettive, dedicate a due maestri semi-dimenticati ma imprescindibili: John Huston (di cui invero basterebbe citare il trittico Giungla d’Asfalto, L’Onore dei Prizzi e Città Amara per capire la portata dell’evento) e il russo Vitalij Kanevskij.

            

Tutto ciò senza aver ancora nominato il concorso ufficiale, i 16 film in gara di cui avremmo modo di parlare più approfonditamente nelle prossime puntate.

Rimane allora una piccola riflessione, dopo le prime due intense giornate di festival. Per comodità o pigrizia mentale l’opinione pubblica è solita collocare il Torino Film Festival sul terzo gradino del podio delle più importanti kermesse cinematografiche italiane, dopo il blasone veneziano e il glamour romano. La questione, va da sé, è tuttavia più complicata di così, anche solo ragionando in termini di anzianità: perché l’appena nato (eppure già in gravosa crisi adolescenziale) festone di Roma dovrebbe valere più del solido e adulto meeting torinese? La verità è che Torino, guastafeste del trio e lontana dall’idea canonica di “festival”, della visibilità a tutti i costi se ne frega. La verità è che l’aria che si respira a Torino non è né migliore né peggiore delle altre; è un’aria “diversa”, non omologata, da outsider. Che a chi scrive sembra, di questi tempi, il miglior complimento che le si possa fare.

 

Filippo Zoratti