Oltre che per la sua invidiabile informalità, la Viennale (nome che omaggia e al contempo canzona la più impettita Berlinale) si distingue per l’entusiasta eterogeneità di contenuto. Il Vienna International Film Festival non prevede competizione, ma solo la “rappresentazione” e la divulgazione delle più interessanti opere passate durante l’anno nelle kermesse del resto del mondo. È il concetto portante dello Spielfilme, gara senza gara che comprende i migliori – e magari più discussi – film passati a Venezia, Locarno, Cannes, Sundance e Toronto. Quest’anno sono 79, fra cui il vincitore di Venezia 73 “The Woman Who Left”, gli ultimi lavori di autori contemporanei di punta (“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, “Yourself and Yours” di Hong Sang-soo, “Elle” di Paul Verhoeven, “La ragazza senza nome” dei Dardenne, “Paterson” di Jim Jarmusch), le nuove scommesse (“Diamant noir”, il finlandese in corsa ai prossimi Oscar “The Happiest Day in the Life of Olli Maki”, “Cump4rsit4” dell’aficionado argentino Raul Perrone, il discusso “Nocturama” di Betrand Bonello) e le pellicole di più largo richiamo (“Personal Shopper” e “Certain Women” con Kristen Stewart, il film di chiusura “La La Land”). Tutto qui? Neanche per idea: oltre alla selezione ufficiale c’è un dedalo quasi inestricabile di tributi, focus speciali e retrospettive, con corollario di eventi extra-cinematografici. Fra un concerto di Patti Smith, una mostra fotografica e la proiezione gratuita di “Daft Punk Unchained” con annesso party è possibile approfondire in questa 54a edizione la cinematografia di Kenneth Lonergan – per inciso: il più talentuoso ed incompreso cineasta americano dei 2000, secondo Martin Scorsese, folgorato dal suo “Margaret” – ad esempio, cui è affidata l’apertura della manifestazione con “Manchester by the Sea”, o magari perdersi fra una sala e l’altra a caccia della quasi totale filmografia di Jacques Rivette, maestro della Nouvelle Vague. Fra i percorsi possibili, spiccano poi l’omaggio al “dancer in the dark” Christopher Walker (12 i film proposti, compreso il memorabile videoclip “Weapon of Choice” firmato da Spike Jonze) e il progetto sui cinegiornali cubani del decennio 1960-1970. Ci piace chiudere questa pur sommaria elencazione del denso cartellone della Viennale 2016 con quello che gli organizzatori definiscono il “Rinascimento analogico”, ovvero il rispolvero del re dei formati del cinema classico (il 70mm) favorito perlopiù dalla distribuzione di “The Hateful Eight” di Tarantino: la sezione “Analog Pleasure” è dedicata ai formati desueti della Settima Arte, destinati a non estinguersi nonostante l’avvento del digitale. Un approfondimento che contempla i super8 del collettivo berlinese Die Tödliche Doris, i 16mm di “La Vallée close”, i 35mm delle “Student Nurses” di Stephanie Rothman e – dulcis in fundo – i 70mm di Jacques Tati e del suo “Playtime”. Quello della capitale austriaca è un festival insaziabile e impossibile da abbracciare nella sua totalità, che suggerisce itinerari eclettici – cerebrali e popolari, d’essai e mainstream – ma comunque all’insegna del rifiuto dell’istituzionalità. 13 giorni che grazie all’approccio degli organizzatori Eric Pleskow, Hans Hurch e Eva Rotter diventano – parafrasando Tati – “tempo di divertimento”, opposto alle sovrastrutture festivaliere che fanno della loro supposta esclusività il proprio fiore all’occhiello.
Sulla carta, il carnet della 73. Mostra del Cinema di Venezia è parso fin da subito uno dei migliori degli ultimi anni. Il confine fra opera d’arte e paccottiglia di seconda mano è però ovviamente labile, soprattutto quando sono così tanti i nomi di rilievo presenti fra concorso e non. La partenza è stata folgorante: l’apertura del trasognato musical “La La Land” ha riportato subito alla mente “Birdman”, ignorato dalla giuria nel 2014 e poi asso pigliatutto agli Oscar. Una storia – quella del film e del suo giovane autore Damien Chazelle, già regista del piccolo cult “Whiplash” – che sembra già scritta, così come all’opposto era già segnato il destino di “Les Beaux Jours d’Aranjuez”: ancor prima della presentazione ufficiale l’opera di Wim Wenders è stata bollata come fallimentare, scarto d’autore di un cineasta da sempre affezionato al festival veneziano. Scorrendo i titoli, balza subito all’occhio quella che è stata la tendenza dell’edizione 73, ovvero la volontà di cavalcare l’onda “sudamericana” dell’anno scorso (con i già vagamente rimossi Leoni d’Oro e d’Argento rispettivamente al venezuelano “Ti guardo” e all’argentino “Il clan”), con risultati altalenanti e discontinui fra Cile, Argentina e – per estensione – Messico: se da un lato la variegata platea del Lido ha potuto ammirare l’ultimo lavoro del prolifico Pablo Larrain (“Jackie”, con una Natalie Portman in odore di Coppa Volpi), dall’altro sia “El ciudadano ilustre” che “El Cristo ciego” sono sembrati carne da macello finita un po’ per caso nella competizione ufficiale. Fino al caso più eclatante, “La region salvaje” di Amat Escalante, sulla cui presenza – non solo in gara, ma alla Mostra stessa – si è alzato più di un ragionevole dubbio. Perché, ad esempio, inserire operazioni così sbilenche e abborracciate quando nelle sezioni collaterali sono stati relegati autori consolidati in gran spolvero come Ulrich Seidl (“Safari”), il ritrovato Kim Ki-duk (“The Net”) e Amir Naderi (“Monte”)? Forse per non lasciare sguarnito il fuori concorso e il neonato “Cinema nel Giardino” – mentre gli “Orizzonti” continuano quasi per definizione ad essere terreni deputati alla sperimentazione e al lancio di nuovi registi. Ma d’altro canto i “carichi pesanti” della gara non sempre hanno convinto, primo fra tutti Terrence Malick, che col suo “Voyage of Time” sembra continuare ad inseguire demoni troppo personali per ricevere un riscontro pubblico e critico (non è un caso che le sue ultime pellicole non trovino più ormai distribuzione). Lo stessa caratteristica del redivivo Emir Kusturica e del suo “On the Milky Way”, ok, ma è un discorso diverso: per l’autore serbo è un ritorno alla cinepresa dopo 8 anni di assenza, e soprattutto dopo un congedo anomalo rispetto alla sua filmografia come “Maradona”. Stringendo il cerchio, il favore del pronostico a chi va quindi? Forse all’italiano “Spira mirabilis” (anche se sembra improbabile che la vittoria possa andare ad un altro documentario made in Italy a così breve distanza da “Sacro GRA”), forse al “Paradise” del russo Konchalovsky (già Leone d’Argento due anni fa con “The Postman’s White Nights”), forse al solido melò francese in costume “Une vie”. Una scelta, quest’ultima, che potrebbe mettere d’accordo l’eterogenea commissione composta fra gli altri da Sam “American Beauty” Mendes, Laurie Anderson, Lorenzo Vigas e Joshua Oppenheimer. Eppure le giurie sono da sempre imprevedibili, e siamo pronti, per l’ennesima volta, a restare stupiti – nel bene e nel male – dal verdetto finale.
I fareasters di lungo corso lo sanno: la caccia al capolavoro, al film (ai film?) da ricordare e mandare a memoria nei secoli dei secoli richiede pazienza e dedizione. È una ricerca spesso casuale, fondata su un ardito incrocio di suggestioni dettate da una trama accattivante, un attore/regista di richiamo, l’orario in cui la pellicola viene presentata. Ci soffermiamo su questo ultimo punto: una delle caratteristiche principali del Far East Film Festival è la sua “unicità”: ogni opera viene proiettata una sola volta, per un totale di 6/7 visioni giornaliere. Ci vuole pazienza sì, ma anche parecchia… fortuna. Il vincitore del FEFF 2016 è “A Melody to Remember”, delicata e toccante epopea sudcoreana che intreccia war drama e spunto tratto da una storia vera, vicenda sovranazionale e ritratto di singoli umanissimi personaggi. Problema: l’international premiere è stata “avvistata” domenica alle 9.15 di mattina, alla presenza di una ristretta parte di spettatori paganti. Le manifestazioni che si affidano al voto del pubblico – da qualche anno lo fa anche la Festa del Cinema di Roma – incorrono per forza di cose in questi cortocircuiti “popolari”, in una cronica sproporzione fra quantità e qualità. Al Far East capita da tre edizioni (
The Eternal Zero
FEFF16, “The Eternal Zero”; FEFF17, “Ode to My Father”), oppure spesso accade che sull’onda dell’entusiasmo trionfi un film dell’ultimo giorno (FEFF12, “Castaway on the Moon”; FEFF13, “Aftershock”; FEFF15, “How to Use Guys with Secret Tips”). Al di là delle considerazioni statistiche, che pur meriterebbero un approfondimento, urge confermare come oramai le certezze arrivino quasi sempre dal Giappone e dalla Corea del Sud, evidentemente le due cinematografie più trasversali e in grado di captare il gusto della platea. Se per quanto riguarda il Paese del Sol Levante si tratta perlopiù di una conoscenza pregressa (i costumi nipponici esondano dai propri confini, grazie ai manga/anime e ad una certa reciproca influenza con il cinema americano), con la
Mohican Comes Home
Repubblica di Corea la buona ricezione avviene in virtù di una mistura di prodotto mainstream “riempi sala” e inedita – a volte stravagante – riflessione socio-culturale. In questa definizione rientrano il vincitore del MyMovies Award “Bakuman”, storia di due ragazzi che ambiscono a scrivere
Bakuman
manga per la più autorevole casa editrice giapponese, e il secondo classificato “Sori:Voice from the Heart”, che fonde fantascienza alla Spielberg e anomalo melò coreano. Titoli da estasi (a cui si aggiunge il Black Dragon Award “Mohican Comes Home”, il migliore in assoluto per il sottoscritto), che controbilanciano il tormento delle molte aspettative tradite, categoria eterogena che fra gli altri annovera l’action di apertura “The Tiger”, il wannabe-psycho-thriller “Creepy” di Kiyoshi Kurosawa e il dramma della gelosia “A Break Alone”, esordio alla regia di uno dei più fidati collaboratori di Kim Ki-duk, Cho Jae-hyun. Si ritorna così ad uno degli eterni dilemmi del Far East Film Festival: il giochino di diastole e sistole, di apertura e chiusura verso l’altromondo asiatico, continua a valere la candela? Ci affidiamo al motto del sopraccitato “Bakuman”, sperando non si esaurisca – anche per gli organizzatori – ancora per molte annate: “amicizia, sacrificio e trionfo”!
Per anni l’Horror Day è stato – in modo trasversale rispetto al variegato programma delle retrospettive – uno dei punti fermi del Far East Film Festival. La sua esplosione e il suo successivo declino hanno coinciso con la scoperta e la caduta del J-Horror: titoli come “Ring” (1998), “Ju-on” (2000) e “Dark Water” (2002), assieme all’hongkongese “The Eye” (2002) hanno aperto la via ad un nuovo – sopravvalutato? – filone aurifero, come dimostrano anche gli svariati remake americani che ne sono stati tratti. È stata una fiammata, breve ma intensa, che ci ha fatto scoprire alcune “ossessioni” asiatiche fino a quel momento sconosciute, molto più che per altri generi: la presenza dell’acqua ad esempio, che per un Paese circondato dall’Oceano come il Giappone è portatrice di spavento e minaccia imminente (e il pubblico occidentale ha trovato finalmente una motivazione per la follia generata da una goccia che cade dal soffitto). Il FEFF è stato lungimirante nella sua caccia all’orrore, seminando qua e là nel corso delle edizioni qualche titolo effettivamente memorabile: “R-Point” (2004), “13-Beloved” (2006), “Body” (2007), “4bia” (2008), “Bedevilled” (2010). Poi il gioco si è rotto, complice l’altalenante produzione annuale delle singole nazioni e la sensazione che il vento iniziasse a girare altrove. Da Far East 14 (ovvero dal 2012) la giornata dedicata all’horror è stata bandita, con un meccanismo simile a quello avvenuto per il tramonto della selezione Pink Movies (il cui canto del cigno è stato l’indimenticato “The Glamorous Life of Sachiko Hanai”). A 6 anni di distanza però, con un colpo di scena inatteso, eccolo di nuovo, ribattezzato Psycho Horror Day. Introdotto idealmente dalla proiezione di “House”
1977 – Torta della festa del film “House”
e dal Gelso d’Oro alla carriera a Obayashi Nobuhiko, il focus sulla paura attinge a diverse realtà, affidandosi all’emulazione o cercando una propria originalità: nel calderone trovano spazio esorcismi alla Friedkin (“The Priest”) e mostri della montagna taiwanesi (“The Tag-Along”), cultura pop tailandese (“Senior”) e incubi d’atmosfera coreani anni ’30 (“The Silenced”). Fino alle due pellicole di punta, entrambe nipponiche: “The Inerasable” di Nakamura Yoshihiro (sceneggiatore proprio di “Dark Water”) e “Creepy” di Kurosawa Kiyoshi (passato a Berlino). Il FEFF ci riprova, rilanciando una proposta che sembrava morta e sepolta sotto il peso di molti film non all’altezza della definizione horror. Una scelta che si specchia e fa il paio da un lato con la conferma dei documentari (ce n’è uno anche nell’Horror Day: “The Lovers and the Despot”, sul rapimento del regista Shin Sang-ok da parte del dittatore nordcoreano Kim Jong-il), una delle novità più apprezzate degli ultimi anni, e dall’altro con la new entry della piccola selezione “China Now”, che ci immerge nella realtà dei film cinesi destinati a non essere diffusi oltre i confini della Repubblica Popolare. Si ritorna insomma al futuro, esplorando al contempo nuovi possibili percorsi degni di approfondimento culturale. Se c’è un motivo per cui (da spettatori, studiosi, cinefili) occorre essere grati per il lavoro svolto dal Far East Film Festival in questi 18 anni è proprio questo: la capacità di mostrare al pubblico una summa di tutto ciò che anno dopo anno è – o ritorna ad essere – attuale nello sconfinato continente asiatico.
Per segnalare il passaggio alla maggiore età, il Far East – con la solita dose di autoironia – ha scelto come gadget “di lancio” una patente di guida, con tanto di vidimazioni e conferme di validità. Ma a 18 anni un festival diventa davvero maggiorenne? Nel caso dell’evento friulano ci si può da un lato stupire della lungimiranza di un progetto nato in sordina nel 1999 (il glorioso Hong Kong Film Festival, l’anno zero che ha gettato le basi di tutto), e dall’altro rendersi perfettamente conto di come il Feff – oltre ad essere oramai radicato nel territorio – abbia ben piantato le proprie radici a livello nazionale. La conferma arriva dall’investitura statale ricevuta dalla manifestazione, per il rapporto fra le industrie di Oriente e Occidente. Un privilegio che emancipa il Feff persino dal semplice contesto cinematografico: qua si parla di cultura tout court, di rapporti fra nazioni lontane lontane eppure accomunate dal nobile intento della divulgazione dell’arte. È il principio che regola il convegno Ties That Bind, workshop di coproduzione fra Asia ed Europa che ogni anno si affina e migliora le proprie prospettive. Il Far East è quindi oramai un gigante che può permettersi di guardare lontano, ma che deve tuttavia tenere a bada alcune fragilità insite nell’idea stessa di “evento pop(olare)”. Tra i punti di forza (e insieme, di debolezza) della proposta c’è la commistione ardita fra cinema basso e cinema alto, fra prodotto alimentare irricevibile per una platea estranea alle dinamiche panasiatiche e grande film d’autore di ampio riconoscimento festivaliero e internazionale. Chi ama il Far East Film Festival lo fa indipendentemente dal livello delle pellicole proposte, è vero, ma quando la forbice fra qualità (delle visioni) e quantità (dell’esborso) si allarga a dismisura, è lecito aspettarsi che qualcosa, nel magico equilibrio costruito pazientemente anno dopo anno, si possa rompere. A costo di apparire venali, uno dei motivi – non di certo l’unico – per cui l’edizione 18 verrà ricordata è il forte aumento dei prezzi, su qualunque tipo di accredito. Il festival orgogliosamente pop rischia così di diventare snobisticamente d’élite: il viaggetto di 10 giorni nella galassia Feff inizia ad assumere i connotati del privilegio per pochi, snaturando così lo spirito “autarchico” degli inizi che ha fatto innamorare migliaia di fareasters. Uno spirito comunque “falsato” – le prime edizioni erano totalmente gratuite, una follia insostenibile per qualunque kermesse –, ma che ora deve scendere a patti con una considerazione inopinabile: assistere alle proiezioni del Far East Film Festival, nel 2016, costa più che assistere a quelle della Mostra del Cinema di Venezia e della Berlinale. Ne varrà la pena? Il piatto sembra essere ricco: 72 film per 10 cinematografie, il ritorno dell’Horror Day e l’esordio della sezione “China Now”, dedicata ai film indipendenti cinesi non censurati. E ancora: la retrospettiva Beyond Godzilla, focus sul cinema sci-fi giapponese, il Gelso d’Oro a Sammo Hung (storico collaboratore di Bruce Lee e Jackie Chan) e la presenza di Johnnie To (che firma anche il trailer del festival, in animazione). Insomma: crescere, diventare adulti e autonomi ha un costo, e il Feff non ha alcuna intenzione di nasconderlo. Ora resta da capire se, anche per il pubblico, l’amore non abbia prezzo…
DIGITAL FLOWS è la mostra che apre la stagione 2016. A cura di Visualcontainer Milano, l’esposizione rappresenta anche un omaggio all’instancabile lavoro di questo archivio video, che – per qualità dell’impegno e parallelamente allo spazio off [.Box] – si insinua nelle pieghe talvolta sterili delle istituzioni museali più accreditate. Nato nel 2008 nel cuore di Milano, Visualcontainer è diventato una sorta di showcase fondamentale per l’archiviazione e presentazione di un linguaggio ancora molto liquido e ancora fortemente in evoluzione quale il video d’artista. L’approccio internazionale e la visione globale dei suoi responsabili lo hanno alzato a luogo privilegiato, quasi una sorta di Archiv und Kunsthalle del linguaggio video nel centro della capitale economica d’Italia, solidificatisi più per i loro contenuti, che per un approccio di tipo, appunto, istituzionale.
Dagli anni 1970, il mezzo video ha subito innumerevoli cambiamenti, per così dire, di transito, passando dall’ipoteca visual-performativa all’ibridazione con l’allora prepotenza del mezzo televisivo-catodico, laddove l’universo pubblicitario entrava a forza nel mercato dell’immagine, parassitando l’arte video e il linguaggio artistico a tal punto da superarlo in molti casi e inducendo gli autori a riformulare giustamente l’approccio, spesso cannibalistico, al mezzo di produzione stesso.
Come la fotografia, anche il video è lo specchio documentativo più immediato del reale che ci circonda e che ci frammenta nella trans-identità del globale.
Dall’epoca, nella quale il video rappresentava la sperimentazione e una risposta antitetica all’esperienza visuale di radice pittorica (fine degli anni 1960), nell’epoca odierna del ‘già tutto sperimentato’ il nuovo è dato proprio e paradossalmente dalla recrudescenza del digitale, che intride la nostra esistenza di un comunicazionismo socio-global non per forza richiesto, ma che induce altresì a un nuovo modello estetico.
DIGITAL FLOWS (Flussi Digitali) intende proprio delineare e mettere in luce quest’ultima fase della produzione video.
Così si esprimono i curatori di Visualcontainer, Alessandra Arnò e Paolo Simoni, sulla mostra e sulle loro scelte curatoriali.
Miguel Andrés (Spagna,1982) System, 2014
[…] “L’immagine nella sua trascendenza digitale ora è immateriale, è un bit, un fascio di luce, risiede tra le nuvole, passa veloce attraverso la rete dei dati.
Cosa ci resta quindi della sua “inconsistenza” e cosa ci attrae verso l’immaterialità dell’immagine video, che sia forse il suo potere evocativo e illusorio?”
DIGITAL FLOWS è un flusso visivo che porta lo spettatore a sperimentare diversi livelli di consapevolezza alla visione attraverso un percorso installativo che parte dall’apice della fascinazione visiva del dato numerico, passando allo spaesamento tra reale quotidiano e panorami digitali, fino al palesarsi della condizione dello spettatore stesso attraverso la simulazione della propria rappresentazione.
La prima opera in mostra di Miguel Andrés, SYSTEM, rappresenta infatti una sorta di specchio, dove è possibile confrontarsi con un ipotetico uomo – macchina futuro, dove l’esperienza sensibile viene sostituita da quella tecnologica precompilata.
La bellezza sintetica è rappresentata attraverso le forme autogenerative dei paesaggi perfetti dell’opera EUPHORIA di Hwayong Jung. L’eleganza delle formule frattali che simulano il concetto di auto-similarità presente nel mondo reale, diventa una sorta di trappola per lo sguardo, che porta all’apice della fascinazione visiva e all’immersione totale in questi scenari digitali.
La sala espositiva diventa quindi luogo deputato “all’apparizione” e “manifestazione” dell’algoritmo numerico che manipola il dato reale attraverso una continua simulazione casuale di forme immateriali perfette.
Hwayong Jung (South Korea/USA, 1979) Euphoria, 2014
L’occhio viene nuovamente ingannato dalla rassicurante rappresentazione della quotidianità nell’opera di Rimas Sakalauskas. SYNCRONIZATION svela strutture che inaspettatamente ri-fuggono dalla solita collocazione urbana. Lo scenario reale poco a poco cambia forma e la rassicurante stabilità del paesaggio urbano si anima, cambia connotazione e si trasforma in una rampa di lancio verso l’ignoto. L’oggetto reale torna al mondo “virtuale” delle idee con un moto inverso.
La perfetta rappresentazione del mondo contemporaneo viene editata come un continuo fluire di situazioni e scenari nell’opera PANORAMA di Gianluca Abbate. La rielaborazione digitale restituisce il melting pot contemporaneo in tutta la sua caoticità, stratificando livelli e paesaggi senza alcun confine in un unico flusso irrefrenabile di immagini del mondo globale.
Barbara Brugola (Italia, 1965) Lapse of View, 2012
Se le precedenti opere audiovisive giocano sullo spaesamento, LAPSE OF VIEW di Barbara Brugola ispirata all’opera ‘Viandante sul mare di nebbia’ di Caspar David Friedrich, fornisce un momento di riflessione sul visivo, un ritorno alla “vera” visione, esattamente come la protagonista dell’opera che osserva l’orizzonte, in silenzio, in attesa ed immersa nel bianco. Questo è un momento intimo di confronto con la realtà e con la sospensione dello sguardo.
Si ritorna fortemente al reale, alla visione e alla storia dell’arte visiva.
Ispirato alla pellicola dei Fratelli Lumière, WORKERS LEAVING THE FACTORY (AGAIN) di Katharina Gruzei, mostra degli operai che escono dalla fabbrica. Una sorta di quarto stato contemporaneo dove l’individualità diventa corpo collettivo. Gli operai potrebbero essere uomini, automi, schiavi, ad ogni modo sono attori nell’industria globale, come gli operai rappresentati dai Lumière sono attori dell’industria dell’immagine.
L’opera è quindi un ulteriore specchio di “riflessione” sulla condizione contemporanea sia in ambito sociologico che digitale.
Il percorso espositivo si estende inoltre su schermi e device, che inaspettatamente diventano da oggetto di uso quotidiano a luogo di apparizione di opere che riabituano l’occhio all’esercizio della visione come l’opera PIXEL MOTION di Cristina Ohlmer. Il quadretti colorati di un quaderno diventano l’unita di misura digitale, il pixel. Attraverso dieci esercizi di stile, il candido manto della foresta nera diventa pretesto per ricontestualizzare il ruolo del pixel e del digitale nello spazio analogico naturale.
Allo stesso modo, SCARABOCCHIO, opera di Marta Roberti, ripropone un’animazione classica sullo schermo di un dispositivo di uso quotidiano, che in questa occasione diventa memento digitale tascabile per questo ibrido umano-insetto, che tenta di ristabilire il proprio equilibrio.
Il cerchio espositivo si chiude e si riapre con opere-specchio, dove è possibile “riflettere” sulla condizione esistenziale, per poi abbandonarsi ai piaceri visivi. DIGITAL FLOWS gioca quindi sulla fascinazione visiva, sulla sospensione dell’incredulità e la rielaborazione del dato reale in chiave digitale, aprendo molteplici livelli di lettura sia sull’uso della tecnologia e il nostro rapporto con essa, che sul potere evocativo e illusorio.
In quanti modi è possibile declinare una rassegna cinematografica? Per definizione, dicesi retrospettiva un ciclo di proiezioni che illustra l’evoluzione di un artista, di un movimento “culturale”. Ed è, in effetti, ciò a cui siamo abituati: nei festival vengono prese in considerazione le carriere di registi e talvolta di attori, oppure di generi e sottogeneri seminali. A volte ci si può imbattere in una serie di restauri importanti per il curatore della sezione, come accade ad esempio con i Venezia Classici della Biennale. La proposta della Viennale – di cui vale la pena parlare anche a festival finito, perché si svolge autonomamente dal 16 ottobre al 30 novembre – allarga a dismisura il ventaglio, abbracciando in pratica tutta la storia del Cinema fin dai suoi albori: “Animals” si impone come una “piccola zoologia delle immagini in movimento”, un dialogo fra natura e tecnologia interpretabile nei modi più disparati. Nelle parole del selezionatore Akira Lippit, la mostra “non accampa alcuna pretesa di completezza, ma è utile per comprendere come il mezzo cinematografico fin dalla sua preistoria abbia preservato la vita animale”. Fra i 47 lungometraggi (più un numero imprecisato di corti) spicca “Gli uccelli” di Hitchcock, punta di diamante anche in virtù della presenza viennese della protagonista Tippi Hedren e titolo spartiacque: i volatili di sir Alfred sono un elemento subordinato che diviene protagonista, un comprimario trascurabile che si tramuta in minaccia e nemico da debellare. Le opere di più facile richiamo sottolineano come la visione ferina si sia trasformata nel corso dei decenni: nel dittico formato da “Tarzan l’uomo scimmia” (1932) e da “King Kong” (1933) l’animale “è” l’uomo, perché contribuisce alla crescita di un essere “selvaggio” abbandonato a sé e crea un’immedesimazione tale da veicolare una riflessione sulla bestialità di cui siamo capaci; ma basta spostarsi qualche anno più là per incrociare lo straziante “Bambi” (1942) e “Torna a casa, Lassie!” (1943) e assistere ad un nuovo punto di vista che fa coincidere un cerbiatto e un esemplare di collie con l’ingenuità (vagamente ricattatoria) e la totale fedeltà verso l’uomo. Probabilmente l’espressione più stimolante e degna di menzione della dicotomia umano-disumano viene dalle metaforizzazioni, ancora visibili nonostante la non stringente attualità: è impossibile non leggere nella devastazione del primo eccezionale “Godzilla” (1954) uno spauracchio della Guerra Mondiale da poco conclusasi, così come – sorpassando di slancio il nostalgico comparto degli effetti speciali – pare evidente la critica alla presunzione e all’onnipotenza umana nell’originale “Il pianeta delle scimmie” (1968). Fra irresisitbili animali antropomorfi e parlanti (“Babe va in città”, “Fantastic Mr. Fox”), cani e corvi neorealisti (“Umberto D.”, “Uccellacci e uccellini”) e bizzarre mutazioni da incubo (“La mosca”), sono tuttavia come sempre i documentari a lasciare il segno, a dare senso ad una retrospettiva che raccoglie più animali di quanti la nostra memoria e la nostra comprensione possano accogliere. “Koko, il gorilla che parla” (a metà fra doc e finzione), “Animal Love” di Seidl, “Grizzly Man” di Herzog e “Cane Toads” di Mark Lewis parlano di noi, di un battito animale che è il nostro e di cui – cinematograficamente ed esistenzialmente – non possiamo fare a meno. Il cinema e l’uomo non sono nulla senza gli animali… compresi i meme di Facebook e i filmati sui gattini di Youtube.
Finalmente ha un nome: New Weird Wave. Quella proveniente dalla Grecia non è solo e semplicemente una “nuova onda”, ma assume inevitabilmente i contorni della bizzarria e della sorpresa. Lo spettro della cinematografia ellenica si aggira nei festival internazionali da una decina d’anni, con la sua messinscena respingente e l’incapacità da parte della critica e degli addetti ai lavori di stabilirne in modo univoco i connotati. Non si tratta ovviamente del cinema greco “classico”: Theo Angelopoulos e Costa-Gavras nulla hanno a che fare con la nuova generazione di cineasti che filma per spiazzare, per ferire lo sguardo di chi osserva e per metaforizzare spesso in modo inquietante la quotidianità di un popolo annichilito dalla crisi. Il focus “Griechenland” propone all’interno del fitto programma della 53a Viennale un mosaico di titoli – non onnicomprensivo, ma a suo modo seminale – che hanno fatto e stanno facendo la storia moderna della Grecia. Una storia iniziata nel 2005 con “Kinetta”, e successivamente passata all’attenzione mondiale con lo sbalorditivo “Kynodontas” (conosciuto anche come “Dogtooth”, e passato in qualche rassegna italiana come “Canino”), vincitore della sezione Un Certain Regard a Cannes 2009. Entrambi i titoli – non è di certo un caso – appartengono a Yorgos Lanthimos, giovane autore che per primo ha messo su pellicola la deriva socio-culturale di una nazione ossessionata da se stessa. “Kynodontas” è un manifesto di intenti, senza se e senza ma: la vicenda paradossale e disturbante di una famiglia isolata dal mondo per volere di un padre-padrone che vieta ai suoi congiunti ogni forma di comunicazione esterna contiene tutte le ragioni di una poetica votata alla denuncia della perdita di identità, dello smarrimento del proprio ruolo nella società. I personaggi di Lanthimos e dei suoi epigoni Athina Rachel Tsangari, Alexandras Avranas e Michalis Konstantatos sono esseri straniti e stranianti che stabiliscono per loro stessi e per i propri vicini nuove assurde regole da seguire, come fossero unanimemente condivise. È ciò che succede ad esempio nel film che apre idealmente la rassegna viennese, “The Lobster”, in cui gli esseri umani da troppo tempo single vengono tramutati in animali. Distopia? Mondi futuribili? Non esattamente: tutto avviene in microcosmi simili se non uguali alla nostra realtà, in cui nessuno capisce più chi vuole o deve essere. Le opere scelte per “Griechenland” sono tutte riconducibili a queste caratteristiche, ad una urgenza narrativa che non può più essere rimandata: fra i 10 lungometraggi proposti spiccano “Bathers” di Eva Stefani, “A Woman’s Way” di Panis H. Koutras, “Boy Eating the Bird’s Food” di Ektoras Lygizos e l’etnografico “To the Wolf” di Christina Koutsospyrou. La stramba Nouvelle Vague ellenica – che più che ad una primavera fa pensare ad un’istantanea disperata – procede compatta e silenziosa, incappando certamente anche in risultati meno convincenti dettati dalle richieste di mercato. Ma è chiaro per tutti: siamo di fronte al più interessante e stimolante prodotto cinematografico europeo degli ultimi lustri, quello che ha fatto della propria stringente necessità una raffinata virtù. Da questo punto di vista il lavoro svolto dal Vienna International Film Festival, primo a tirare coraggiosamente le somme di una tendenza sotto gli occhi di tutti ma mai limpidamente messa a fuoco, non può che definirsi pionieristico.
Oltre la Berlinale e la Biennale, c’è la Viennale, un “nuovo mondo” lontano dai riflettori e dall’hype internazionale, ma fortemente radicato sul territorio e con alle spalle una storia lunga quasi 60 anni. Il fondamento principale su cui si basa il Vienna International Film Festival, fin dalla sua prima edizione datata 1960, è proprio quello di una giocosa ma aperta contrapposizione con il blasone e l’istituzionalità dei cugini tedeschi: la Viennale è un festival non competitivo, privo di tappeti rossi e premi. Cui prodest? Agli amanti del cinema, anzitutto: perché con le sue oltre 300 proiezioni annuali la kermesse austriaca si propone per prima cosa come “upload”, aggiornamento indirizzato proprio a chi non ha la possibilità di frequentare i migliori eventi mondiali. A Vienna, sul finire di ottobre, è possibile passeggiare per le vie del centro e fermarsi a guardare i vincitori di Venezia, Berlino, Cannes, Locarno, Toronto, San Sebastian… Una scelta controcorrente, trattandosi di una manifestazione che si svolge in una capitale europea, ma che non possiamo che definire vincente: Vienna si svincola dalle costrizioni di facciata, insegue percorsi personali che mescolano alto e basso, e soprattutto restituisce allo spettatore l’opera d’Arte filmica, nella sua unicità. Nel corso della sua 53a edizione, che si svolge dal 22 ottobre al 5 novembre, questa insolita festa della Settima Arte proporrà ben 12 sezioni, articolate in un fitto programma che copre 5 sale sparse per la città. Vale la pena nominarle (quasi) tutte, a costo di scadere nella mera elencazione. Anzitutto, lo “Spielfilme”, sorta di selezione ufficiale che annovera i film di più facile richiamo: dalle anteprime dell’ultimo Todd Haynes (“Carol”) e dell’ultimo Woody Allen (“Irrational Man”) ai vincitori di Locarno (“Right Now, Wrong Then” di Hong Sang-soo) e di Cannes (“Dheepan – Una nuova vita” di Jacques Audiard), dai nuovi imprescindibili autori (J.C. Chandor, Yorgos Lanthimos, Sean Baker) alla presenza dei registi italiani amati e riconosciuti all’estero (Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Pietro Marcello). Parallelamente, si sviluppa un corposo focus sui documentari, che da solo meriterebbe una visione complessiva: “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer, “Behemoth” di Zhao Liang, “The Wolpack” di Crystal Moselle, “Dreamcatcher” di Kim Longinotto, per un totale di 70 titoli. E ancora: i tributi a Tippi Hedren, a Manoel de Oliveira e al cinema pulp austriaco (avete letto bene), fino all’omaggio al cineasta sperimentale argentino Raul Perrone (di cui saranno visibili anche gli ultimi due lavori, “P3ND3JOS” e “Favula”). Ma i veri pezzi pregiati, per il sottoscritto, saranno altri: il programma speciale “Griechenland”, incentrato sulla New Weird Wave greca – ovvero sulle rappresentazioni filmiche della crisi economica ellenica, dentro e fuor di metafora – e l’eccezionale retrospettiva “Animals”, dedicata a cinema & animali (ancora una volta, tra alto e basso, si passerà da “Godzilla” a “Babe”, da “White Dog” di Fuller a “Torna a casa Lassie”). Ai confini dell’impero cinematografico che “conta” (fra mille virgolette) c’è la Viennale, che da decenni – per usare un eufemismo – se ne frega, e propone una festa generosissima e onnicomprensiva a perfetta misura di cinefilo. Come per il Neo di “Matrix” non c’è che una soluzione: sedersi comodamente, connettersi al buio della sala (ma senza prese usb piantate nella testa) e abbandonarsi al flusso delle immagini in movimento.
Mettiamola così: solo il tempo – forse – saprà dirci se il trionfo dell’America Latina alla 72a Mostra del Cinema di Venezia sia stata una scelta lungimirante o scandalosa. Solo il tempo, e una riflessione a mente fredda, potrà dare senso ad un colpo di teatro che di primo acchito è parso a tutti straordinariamente folle e fuori misura. Il direttore Barbera, ad inizio festival, lo aveva anche annunciato: le vere sorprese della selezione sarebbero state le opere provenienti dal Sudamerica, in quanto artefici del cinema più interessante in circolazione. È vero, ma mai avremmo neanche lontanamente sospettato che un presidente di giuria messicano (l’Alfonso Cuarón di “Gravity”) potesse piazzare ai posti più alti del podio una pellicola venezuelana e una argentina. Due lavori – “Desde allá” di Lorenzo Vigas e “El Clan” di Pablo Trapero – che al momento è davvero difficile giudicare per il loro reale valore, estrapolandoli cioè dal contesto in cui sono emersi.
Il pubblico festivaliero (giornalisti, addetti ai lavori, studenti di cinema e appassionati) che ha gridato al golpe ha però la memoria breve, perché la storia della Mostra è costellata di campanilismi: senza allontanarci troppo basti pensare a Zhang Yimou che nel 2007 premia “Lussuria – Seduzione e tradimento” di Ang Lee, a Quentin Tarantino che nel 2009 impone “Somewhere” della sua ex compagna Sofia Coppola e a Bernardo Bertolucci che nel 2013 incensa il documentario “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi. Tutti i pronostici dovrebbero tenere conto che a sentenziare sui film in gara non è un gruppo di esseri umani angelicamente super partes (che non esiste), ma un manipolo di professionisti emotivamente o amichevolmente coinvolti. Il mosaico del palmarès veneziano sembra oltretutto composto da altri passaggi obbligati, che a volte muta nel corso degli anni – l’era Müller con il suo codazzo di Leoni asiatici – e altre volte permane granitico con lo scorrere dei lustri: se la selezione dei film italiani ad esempio è di bassa o controversa qualità, inevitabilmente una gratifica arriverà da un premio collaterale (in particolar modo dalle Coppe Volpi, fermo restando che il riconoscimento di quest’anno a Valeria Golino per “Per amor vostro” è inattaccabile); se in concorso ci sono grandi cineasti ancora orfani di Orsi, Palme o felinidi nelle loro bacheche, è altamente probabile che prima o poi verranno giustamente o meno risarciti. In questo caso vige quasi una logica di “prelazione”: il festival che per primo consacra il wannabe Maestro della Settima Arte sa che poi quell’autore sarà portato ad avere un occhio di riguardo verso la kermesse che lo ha imposto all’attenzione mondiale. A Venezia, nelle ultime edizioni, è successo così per Sokurov con “Faust”, per Kim Ki-duk con “Pietà”, per Roy Andersson con il suo “Piccione seduto su un ramo”. E abbiamo logicamente pensato che potesse accadere lo stesso anche stavolta, consci della qualità di opere quali “Rabin, the Last Day” di Amos Gitai e “11 Minutes” di Jerzy Skolimovski. Ci siamo totalmente sbagliati o, meglio, la giuria ha stupito tutti, incoronando una insospettabile opera prima e un solido thriller tratto da una storia vera. Non è dato sapere – come dicevamo prima – se si tratti di colpo di genio o di vergognoso tonfo, ma per ora ci si potrebbe accontentare di una vaga speranza: a dispetto della regola che vuole i premiati della Mostra putualmente ignorati dal pubblico in sala, il trio “Desde allá” – “El Clan” – “Anomalisa” (Gran Premio della Giuria) potrebbe segnare una clamorosa inversione di tendenza. Offrendo nuovo credito ad una delle classifiche più odiate degli ultimi anni.
Filippo Zoratti
I PREMI UFFICIALI DI VENEZIA 72
Leone d’Oro per il miglior film a “Desde allá” di Lorenzo Vigas
Leone d’Argento per la migliore regia a “El Clan” di Pablo Trapero
Gran Premio della Giuria a “Anomalisa” di Charlie Kaufman e Duke Johnson
Premio Speciale della Giuria a “Abluka (Frenzy)” di Emin Alper
Coppa Volpi femminile a Valeria Golino per “Per amor vostro”
Coppa Volpi maschile a Fabrice Luchini per “L’hermine”
Premio Marcello Mastroianni (attore emergente) a Abraham Attahper “Beasts of No Nation”
Premio per la migliore sceneggiatura a “L’hermine” di Christian Vincent
Leone del Futuro – Premio Opera Prima a “The Childhood of a Leader” di Brady Corbet
Leone d’Oro alla carriera a Bertrand Tavernier
Premio Orizzonti per il miglior film a “Free in Deed” di Jake Mahaffy
Premio Settimana della Critica a “Tanna” di Martin Butler e Bentley Dean
Premio Giornate degli Autori a “Early Winter” di Michael Rowe
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