Alla 72a Mostra del Cinema di Venezia vince il Leone d’Oro il film venezuelano Desde allà – Da lontano, diretto da Lorenzo Vigas. Questo film racconta la storia di un tormentato rapporto omosessuale tra un uomo di mezza età (Alfredo Castro) e un giovane teppista (Luis Silva) di Caracas. il film è stato preferito dalla giuria ai concorrenti dati per favoriti come Gitai e Sokurov. Il regista Lorenzo Vigas ringrazia e lascia il palco gridando “Viva Venezuela”.
Come era facilmente intuibile, il tridente formato da Sokurov (“Francofonia”), Gitai (“Rabin, the Last Day”) e Skolimovski (“11 Minutes”) ha risollevato quasi in toto le sorti del Concorso. Ci si rifà insomma ai grandi veterani, con la netta sensazione che sia arrivato il turno di Gitai per quanto concerne il Leone d’Oro: il suo “Rabin”, racconto di uno degli episodi più drammatici della storia israeliana, tocca tutte le corde necessarie per mettere a tacere le polemiche. Chi si ricorda il trionfatore dell’anno scorso – il bistrattato “Piccione seduto su un ramo” di Roy Andersson – sa che si tratta quasi di un percorso obbligato, nel momento in cui un grande autore decide di essere presente al Lido invece che a Berlino o Cannes, o magari Toronto. Un algoritmo che tutti conoscono ma di cui non si può parlare, che prevede anche lo step di un premio ad un film italiano e almeno un riconoscimento ad un’opera asiatica. Sul primo punto, solleviamo grosse perplessità: nessuno dei quattro italiani pretendenti sembra assolutamente potersi meritare un leoncino, un Gran Premio o una Coppa Volpi; mentre per quanto riguarda l’Oriente le speranze sono tutte riposte sul doc cinese “Behemoth”, poema civile allegorico che pure sembra essere tra gli outsider più quotati. La riabilitazione del documentario è stato uno degli scatti più significativi della gestione Barbera, come dimostrano i successi di “Sacro GRA” due anni fa e di “The Look of Silence” nel 2014. Indipendentemente dal futuro del medesimo Barbera (che con questa edizione chiude il suo quadriennio) non si possono non tenere in considerazione i cambiamenti apportati dal suo “basso profilo”: bando alla sovraesposizione panasiatica, occhi più aperti al mainstream e presa di coscienza dell’importanza dei nuovi media. Se quest’anno Venezia ha mancato l’appuntamento con le mini-serie, è altresì vero che in gara la presenza di “Beasts of No Nation” ha segnato un nuovo passaggio: oltre alla direzione di Cary Joji Fukunaga (quello di “True Detective”), la pellicola si segnala per la produzione e la distribuzione on line da parte di Netflix. Al di là del valore intrinseco del film in questione, l’accettazione di un prodotto del genere scuote dalla polvere che quasi per definizione ammanta l’idea stessa di kermesse festivaliera. Come già scritto nei giorni scorsi però, quello di Barbera non è di certo stato un percorso netto, ed è proprio in questa 72a annata che un nodo è venuto al pettine: lo scollamento fra le varie sezioni, totalmente prive di omogeneità. Tralasciando le “autonome” Giornate degli Autori e Settimana della Critica, il dramma si è consumato nella abnorme differenza di qualità proposta dal concorso e dai benemeriti Orizzonti. La scelta delle opere in gara sembra ormai aver ceduto alla mera funzione di vetrina, di facciata luccicante di cui parlare sulle prime pagine dei giornali e di cui poi dimenticarsi. Il Concorso 2015, purtroppo, non lascerà traccia di sé, semplicemente perché non ha assurto al suo ruolo di “termometro” dello stato del Cinema. Una caratteristica che si riscontra invece pienamente nei collaterali Orizzonti, mai come quest’anno degni di menzione: al posto dei bolsi “Equals” e “The Danish Girl” (buoni per un Fuori Concorso) ci sarebbero potuti tranquillamente stare l’iraniano “Wednesday, May 9”, l’israeliano “Mountain” e il danese “A War”. Sarebbe auspicabile trovare una maggiore coesione fra la prevedibilità dell’uno e l’innovazione dell’altro, un equilibrio “identitario” di comprensibile e ardua realizzazione ma di cui qua e là si intuiscono solide tracce. Il sottoscritto punta fortissimamente sui più che marginali “Heart of a Dog” di Laurie Anderson e “Desde Allà” dell’esordiente Lorenzo Vigas: perché più dei maestri sopraccitati darebbero senso alla poliedricità – tentata e non riuscita, ma necessaria – di Venezia 72.
Filippo Zoratti
Prima Puntata: Scalando l’Everest (delle critiche)
di Filippo Zoratti
Dovessimo seguire i “suggerimenti” di Alberto Barbera, con la 72. Mostra del Cinema di Venezia saremmo di fronte ad una selezione destinata ad accontentare tutti, dal pubblico festivaliero tout court ai fruitori occasionali o più amanti del mainstream. Questa affermazione – desunta da un’intervista rilasciata nei giorni precedenti all’avvio – contiene un fondamento di verità: questo è l’anno del rilancio glam, della riaffermazione di una caratteristica spesso scippata al Lido da altre kermesse maggiormente “di tendenza”. Lo si capisce dal numero fittissimo di star da red carpet, di nomi di richiamo soprattutto per i giovani fan desiderosi di attendere giornate intere pur di avere l’autografo o il selfie con il proprio beniamino. Se è vero che – come diceva Walt Whitman – l’essere umano e le opere del suo ingegno sono per forza di cose destinate a contenere moltitudini, mai come in questa edizione numero 72 si avverte la sensazione di una selezione divisa a compartimenti stagni fra le sue sezioni, a tratti persino schizofrenica. Il tiro al bersaglio nei confronti della Mostra è da sempre uno degli sport preferiti degli addetti ai lavori presenti alla manifestazione, ma chi si è fin da subito scagliato contro la mediocrità del film di apertura “Everest” (mediocrità relativa, si tratta pur sempre di un blockbuster a cui ben poco si può chiedere dal punto di vista qualitativo) si è giocato il jolly della stroncatura troppo presto, forse ingannato dalla nobile scelta di mettere in pre-apertura i restauri di Orson Welles. Per il Concorso e il Fuori Concorso, almeno a giudicare da questi primi cinque giorni, sembra non esserci ormai più speranza: sono territori destinati alla facciata, al richiamo dei lanci ansa e degli strilli di copertina. Emblematico il caso di “Equals”, bigino fantascientifico impresentabile utile solo per la presenza appunto di superficiale interesse dei piccoli divi Kristen Stewart e Nicholas Hoult. Film privo di qualunque innovazione, votato al target degli adolescenti da multisala del sabato sera: eppure film regolarmente in gara per il Leone d’Oro, così come lo è “The Danish Girl” di Tom “discorso del re” Hooper, probabilmente votato al saccheggio dei prossimi Oscar in virtù della presenza del lanciatissimo Eddie Redmayne e di una tematica socio-culturale inattaccabile (la storia vera della prima persona transessuale a cambiare chirurgicamente sesso, nel 1930). Fossero eventi collaterali o extra non faremmo una piega, e infatti non la facciamo dinnanzi al convenzionale Black Mass di Johnny Depp. Ma così l’attenzione mediatica passa tutta attraverso operazioni commerciali trascurabili, mentre (non siamo i primi a dirlo) altrove ci sarebbero cinematografie tutte da scoprire: come già accaduto in passato, la sezione Orizzonti sembra il nuovo e “reale” concorso, quella che segnala – nel bene e nel male – le tendenze del cinema presente e futuro. La scarsa considerazione che hanno ricevuto l’israeliano “Mountain”, il danese “A War” e l’iraniano “Wednesday, May 9” dovrebbe far riflettere, mentre si comprende perfettamente che la presenza nella selezione ufficiale di alcuni grandi maestri come Sokurov, Gitai e Skolimowski è quasi un tributo necessario per ridare spessore e per ristabilire i toni “qualitativi” dell’evento, che paradossalmente stona con l’andazzo generale: la “Francofonia” del sopraccitato Sokurov ad esempio risulta quasi un oggetto alieno indefinibile, come fosse lui fuori contesto invece di tutto il resto. Impossibile fino a questo momento non definire il percorso di Venezia 72 che in un modo: accidentato, dissociato. Ovvero il rovescio della medaglia luccicante mostrata in tempi non sospetti dalla Biennale, quando si parlava di una Mostra imprevedibile ed eccentrica. Per il momento della totalità di sguardo auspicata allora non c’è traccia, ma vale la pena concedere il beneficio del dubbio: c’è ancora molto da dire e molto da vedere.
FEFF 17, Udine
And the Winner is…
“Ode to My Father”
[Corea del Sud 2015, di Youn Je-kyoon, con Hwang Jung-min e Kim Yun-jin]
di Filippo Zoratti
Vince la 17a edizione del Far East Film Festival… la Corea del Sud. Non un singolo film, ma proprio una nazione intera: ad occupare i primi tre posti del podio 2015 tre opere provenienti dalla repubblica semi-presidenziale orientale. Un trionfo non annunciato, in parte controbilanciato dal Black Dragon Award finito nelle mani della cambogiana Sotho Kulikar per il suo “The Last Reel”. Forse per “il più grande festival del cinema popolare asiatico” è giunto il momento di sfatare un mito. Non è quella giapponese la cinematografia più vicina ai gusti occidentali. Il palmares della kermesse friulana parla chiaro: in 17 anni per ben 8 volte è stata la South Korea a sbancare, a fronte di sole quattro vittorie nipponiche. A fare breccia nei cuori dei fareasters è stato quest’anno il fil rouge della memoria, nelle sue varie declinazioni. Da un lato “The Royal Tailor” (2° posto), dramma in costume ambientato all’epoca della dinastia Joseon e dall’altro “My Brilliant Life” (3° posto), toccante inno alla vita incentrato su un 17enne affetto da progeria. Nel mezzo spicca “Ode to My Father”, sorta di incrocio fra il “Forrest Gump” di Zemeckis e l’“Always” di Takashi Yamazaki. Ovvero: una carrellata dei principali eventi storici che hanno caratterizzato la Corea negli ultimi sessant’anni, visti con gli occhi di un cittadino qualunque.
Tra le maglie di una narrazione più articolata di quanto possa sembrare, il regista Youn Je-kyoon pone l’accento sì sugli immensi sacrifici del protagonista Deok-soo (interpretato da Hwang Jung-min), ma più di ogni altra cosa insinua la mancata riconoscenza da parte della sua famiglia nei suoi confronti: figli e nipoti non gli sono affezionati, perché probabilmente non sono “onniscienti” come viene concesso di essere a noi spettatori privilegiati. La vicenda di Deok-soo inizia da bambino, durante la tragica emigrazione da Hungnam, e procede attraverso le tappe del lavoro in miniera nella Germania degli anni ’60 e della guerra del Vietnam. Tutti i gesti di Deok-soo – prima ragazzo, poi uomo, ora anziano – sono compiuti col desiderio di proteggere i propri cari, nella speranza di ricongiungersi un giorno con il padre perduto nel 1951. Pur non essendo apertamente tratto da una storia vera, “Ode to My Father” ci parla di un’intera generazione, puntando al contempo il dito verso chi non avendo vissuto periodi storici difficili si adagia sulle agevolazioni del proprio presente come un atto dovuto. Una scommessa vinta in patria (“Ode” è il secondo miglior incasso coreano di sempre, dopo “Roaring Currents” e prima dell’americano “Avatar”), nonostante le aspre critiche ricevute. Perché il pubblico – anche quello del Far East – ha capito che l’opera di Youn non è una patinata fiction conservatrice, ma un sentito e genuino tributo alla Storia di un Paese che ha sofferto per la propria emancipazione.
Filippo Zoratti
video della canzone “Ode to My Father” di Kwak Jineon e Kim Feel
FEFF 17, Udine
Ode to the Emotional Chain Reaction
di Filippo Zoratti
Giunto alle soglie della maggiore età, il Far East Film Festival di Udine non accenna neanche lontanamente ad una diminuzione del proprio consenso popolare, costruito e consolidato anno dopo anno nell’unità di spazio del Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Anzi, chi all’epoca della 10a edizione – vista, chissà perché, come momento di bilancio generale e in cui “voltare pagina” – caldeggiava un trasferimento dalla piccola cittadina del nord-est alla più “blasonata” (?) Roma, evidentemente non aveva considerato che alla decade il FEFF non c’era arrivata col fiato corto. Tutt’altro: sebbene il festival fosse nato quasi per caso nel 1999 come focus sulla sola cinematografia hongkongese, è apparso chiaro fin da subito che una proposta del genere, nonostante alcune fisiologiche flessioni, non sarebbe stata una fiammata di breve durata. Dunque su cosa si fonda il successo del Far East, qual è il suo segreto? Probabilmente, oltre al fatto di essere stato il primo ad avventarsi sul made in Asia, il segreto sta proprio nel fatto… che non esistono segreti. Al contrario, nel tempo è aumentata la piacevole sensazione di una ricerca continua di supporto col proprio pubblico di riferimento, del tutto priva di approcci snobistici. È su questo punto che la manifestazione gioca la propria annuale partita, non di certo sulla singola qualità dei film.
Così, mentre tutto attorno le kermesse che hanno tentato di emulare il sogno friulano chiudono o registrano costanti e cocenti emorragie di pubblico, a Udine si verifica immutabile il “miracolo”: per nove giorni l’orologio si ferma, si entra in una bolla di sapone e non si fa che parlare e discutere di cinema asiatico. Mescolando alto e basso, fermandosi magari un paio d’ore per non andare in overdose ed essenzialmente grati per un’atmosfera inedita, esclusiva e sorprendentemente genuina. Indipendentemente, lo ripetiamo, dal valore oggettivo delle pellicole proposte, frutto della buona o cattiva annata delle singole nazioni. Perché il Far East Film Festival è un “movimento”, una “emotional chain reaction” come sottolinea l’indovinatissimo trailer della 17a edizione. Sul fatto che sia stata l’emotività a trionfare del resto non avevamo dubbi, osservando il palmares finale: vince “Ode to My Father”, commovente epopea di un “Forrest Gump” coreano che attraversa cinquant’anni di Storia, dalla Guerra di Corea al Vietnam ai giorni nostri.
Un podio tutto coreano – a proposito di bilanci: su 17 edizioni per ben 8 volte la Corea del Sud si è meritata l’Audience Award – il cui fil rouge sembra essere il concetto di memoria, nelle sue varie declinazioni: dalla sopraccitata “Ode” a “The Royal Tailor” (2° posto), dramma in costume ambientato all’epoca della dinastia Joseon, fino alla memoria “mancante” raccontata in “My Brilliant Life” (3° posto), toccante inno alla vita incentrato su un 17enne affetto da progeria. Allarghiamo lo sguardo: il Far East Film Festival sta – e siamo solo all’inizio – costruendo una memoria collettiva che non c’era, definendo le coordinate di una cinematografia lontana che così lontana non lo è più. Sta, in ultima ed estrema sintesi, riunendo sotto un’unica dicitura una famiglia trasversale di appassionati e giornalisti, curiosi e addetti ai lavori, studenti e docenti. Li chiamano “fareasters”: un popolo agguerrito disposto a tutto pur di difendere la creatura che ha visto crescere nel corso di 17 lunghissimi – e brevissimi! – anni. Considerando i continui tagli alla cultura, le conseguenze della crisi da cui tutt’ora siamo sommersi e la ormai immediata reperibilità – legale o meno – dei prodotti audiovisivi, questo risultato non può che essere eccezionale.
Filippo Zoratti
Terza (e ultima) puntata:
Riflettendo sull’esistenza (dei festival)
di Filippo Zoratti
Le vittorie del filippino “From what is Before” a Locarno e di “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence” alla 71a Mostra del Cinema di Venezia riaprono di gran carriera la questione ciclica dell’utilità dei festival d’Arte. Se per inquadrare il film di Lav Diaz basterebbe osservarne la durata – poco meno di sei ore, in cui si racconta il dramma di una comunità di contadini sconvolta dalla nascente dittatura di Marcos – per comprenderne lo scarso appeal verso le grandi platee, l’opera grottesca dello svedese Roy Andersson sembra sulla carta scendere più pacificamente a patti con una fruizione più “classica” se non addirittura comica e quindi, sempre in teoria, vicina ai gusti del pubblico. In realtà il lunare Leone d’Oro richiede una straordinaria complicità in chi guarda: occorre, per divertirsi, stare al gioco e accettare anche che il cineasta ci prenda un po’ in giro, in quanto parte integrante di quell’umanità derisa lungo tutta la serie di sketch che compongono la pellicola. Per chi – come il sottoscritto – ha assistito alla proiezione post-premiazione (dedicata al 90% allo spettatore occasionale, ovvero a chi vede un solo film all’anno della Mostra e desidera assistere al presunto “migliore” della selezione) lo shock è stato notevole: fischi assordanti, mutismo totale anche durante le sequenze (Lotte la zoppa!) già di culto fra i frequentatori della Mostra, croniche emorragie di gruppi di persone che dopo una trentina di minuti hanno cominciato ad uscire indignati dalla sala. Ora, lungi da noi decidere a tavolino cosa sia buon cinema e cosa no, restano sul piatto alcune questioni fondamentali: il divario – macché divario, abisso – fra “addetti ai lavori” (critici, cinefili festivalieri, maestranze varie) e “pubblico”, anzitutto, seguito a ruota da una sorta di “analfabetismo filmico” dell’utente che non comprendendo il medium che ha di fronte non ragiona ma si limita superficialmente a disprezzare e rigettare. Qual è il compito di una giuria, dunque? Decidere in autonomia il prodotto più meritevole e magari concedergli la visibilità che altrove non avrebbe o (quasi) al contrario scegliere anche tenendo conto della spendibilità dell’Opera d’Arte, in modo da “accontentare” anche chi, economicamente parlando, tiene in vita il sistema cinema? Seguendo quest’ultima via, il vincitore perfetto sarebbe stato il russo “The Postman’s White Nights”, cui invece è andato il Leone d’Argento, con la sua storia sufficientemente lineare tale da dare la sensazione allo spettatore di imparare qualcosa senza eccessivo sforzo. Invece Alexandre Desplat & Co. – non potendo assegnare il riconoscimento più alto a “The Look of Silence”, giacché si sarebbe trattato del secondo felino d’oro ad un documentario in due anni – hanno scelto “A Pigeon”, e si è scatenata la tempesta. Purtroppo di Andersson così come di Lav Diaz sentiremo ben poco parlare, a meno di miracoli, e di certo non per la scarsa qualità delle rispettive pellicole. La totale mancanza di familiarità con testi eterogenei e articolati del pubblico “medio” affosserà le due opere, magari a favore dell’ennesima commedia posticcia alla Brizzi che seda dolcemente e lascia tranquille le sinapsi a riposare per un paio d’ore (spot compresi). Problemi minori, si dirà, ma è nell’impoverimento culturale che si rispecchia lo stato di salute di una nazione. E allora, come afferma Roy Menarini, “bisogna al più presto introdurre Media Literacy nelle scuole, altrimenti rimarremo l’Italia che vediamo in “Belluscone”.”
Seconda puntata:
Cosa sa il cinema che noi non sappiamo?
di Filippo Zoratti
Nel corso del denso documentario “From Caligari to Hitler”, presentato nella sezione “Venezia Classici” nei primi giorni di questa 71a Mostra, la domanda ricorre almeno in tre occasioni. Mentre scorrono immagini che mettono in relazione l’espressionismo tedesco di Lang, Murnau e Wiene con l’ascesa del Nazismo, la voce off si e ci chiede: cosa sa il cinema che noi non sappiamo? Durante i Festival, luoghi deputati più al marketing e al glamour che alle “tangibili” scoperte della Settima Arte, il pubblico (di qualunque tipo esso sia) dovrebbe muoversi con in testa solo questo obiettivo. Se la direzione artistica di Alberto Barbera ha un merito, in fondo è proprio quello di aver sostituito all’occhio passionale e cinefilo di Muller (pur encomiabile) una visione maggiormente “critica” ed esplorativa del cinema. Barbera farebbe a meno del Concorso, lo abolirebbe. Una dichiarazione (meglio, una provocazione) che viene però in un’annata della Mostra in cui per ora (a quattro giorni dalla chiusura) le vere scoperte si contano sulle dita di una mano. Nei primi giorni ci siamo fatti ingannare dall’apertura di “Birdman” e dal successivo “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer. Due lavori che rispondono alla domanda iniziale, due film che mostrano qualcosa che non ci aspettavamo né conoscevamo: la sfrontata creatività di un inedito Inarritu da una parte – caleidoscopio di follie attoriali, teatrali e umane – e il secondo capitolo di un dramma civile che già avevamo imparato a conoscere e amare grazie a “The Act of Killing”. Il cinema sa quindi ancora stupirci e saziarci, rapirci e farci dimenticare tutto il resto; sa, in una parola, insegnarci. Un exploit purtroppo mai più ripetuto, se non proprio in quei “Classici” che semplicemente avevamo dimenticato: da “Todo Modo” all’esplosione ultra-oltre-mega onirica di “The Tales of Hoffmann”, fino al ritorno ai potenti e attualissimi Kieslowski (“Senza fine”) e Mankiewicz (“Bulli e pupe”). Tutt’intorno però abbiamo via via visto cadere uno dopo l’altro i film più attesi: “One on One” di Kim Ki-duk, che ripete se stesso all’infinito; “The Humbling” e “Manglehorn”, one man show di Al Pacino che travolgono tutte ciò che incontrano sulla propria strada; “La rançon de la gloire” e “3 Coeurs”, stanche ripetizioni degli stilemi della commedia e del dramma francese che ormai mandiamo a memoria; “Tales” e “Loin des hommes”, di autori sconosciuti dai quali sarebbe stato lecito attendersi qualcosa in più del compito ben svolto, data la loro presenza nel Concorso. Una selezione media e talvolta mediocre, che ci ha fatto saltare di gioia quand’anche di poco si è alzata l’asticella della qualità. Si è gridato al capolavoro per “Il giovane favoloso” di Martone e per il grottesco e lunare “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence” di Roy Andersson, ma sorge spontaneo il dubbio che non siano le nostre aspettative ora ad essersi abbassate. Visto così, pare che il cinema di sicuro una cosa la sappia, e cerchi di nascondercela: la propria crisi di forme e contenuti. Ma siamo pronti ad essere smentiti. Siamo pronti, ancora una volta, ad entrare in sala e scordarci di noi stessi, per imparare ciò che ancora non sappiamo.
Uno dei passatempi preferiti dei cacciatori di frodo festivalieri – critici, pubblico, addetti ai lavori e maestranze varie – è il temibile tiro alla Mostra. Una pratica sanguinaria che si svolge sul finire dell’estate, e che sostanzialmente ogni anno si svolge nella medesima bieca successione di eventi: dopo un periodo di relativa quiete di quasi un anno, l’ignara vittima – che per comodità chiameremo “Direttore Artistico” – esce allo scoperto e inizia la propria inesorabile migrazione verso il Lido di Venezia, luogo deputato di una brevissima stagione degli amori della durata di 12 giorni. Lo stoico esemplare di Direttore riuscirà a portare a compimento la propria missione, ma non prima di essere stato debitamente scannato e spolpato vivo dai sopraccitati predatori, a suon di accuse e giudizi sommari, di feroci reprimende e spericolate dichiarazioni di fallimento “a scatola chiusa”. Il poco amante della polemica Alberto Barbera il gioco lo conosce ormai da tre anni, ma continua a non farsene una ragione. La sua più grande colpa è quella di amare la politica del basso profilo, che lo rende invisibile e “umano” (leggi: poco carismatico, per i detrattori), strenuo difensore della semplificazione di forme e contenuti e ben consapevole che il cinema è anzitutto ricerca e analisi artistica. Salutato dai più come un traghettatore, un riempitivo necessario fra il fu Marco Muller (ora al discutibile e confuso Festival Internazionale del Film di Roma) e chissà chi, Barbera ha moderatamente iniziato a cambiare i connotati della Mostra di Venezia, rendendola sempre meno passerella e sempre più luogo di novità e “reali”, tangibili aggiornamenti della Settima Arte. Un merito che corrisponde in verità ad una ovvia presa di coscienza, un coerente adattamento alla situazione che le kermesse internazionali tutte stanno vivendo. Data per appurata la polemica di default, Barbera se n’è giustamente fregato, dapprima scegliendo come Presidente di giuria il compositore Alexandre Desplat al posto di un cineasta tout court (sacrilegio!) e poi aprendo le porte ad un programma sghembo e di difficile interpretazione. Il Concorso ad esempio conta addirittura quattro opere francesi (“La rançon de la gloire”, “Le dernier coup de marteau”, “3 coeurs”, “Loin des hommes”), altrettanti film americani (“Manglehorn”, “Good Kill”, “99 Homes”, “Birdman”), tre italiani d’autore (“Hungry Hearts”, “Il giovane favoloso” e “Anime nere”) e un bel po’ di emeriti sconosciuti; riapre al documentario (“The Look of Silence”, ideale seguito o quasi di “The Act of Killing”), lancia la bomba a mano Pasolini e grida al miracolo con il turco “Sivas” dell’esordiente Mujdeci. Paccottiglia o selezione di alto livello? Barbera la conosce la risposta: “il concorso è inevitabile, ma accessorio. Fosse possibile bisognerebbe abolirlo” (anatema!). Anche perché così facendo si perde di vista tutto il resto della proposta, dai Fuori Concorso agli Orizzonti, dalla sperimentazione della Biennale College ai Classici restaurati. Occorre dare alla Mostra la possibilità di “mostrarsi”, di farsi capire. Basterebbe solo non impallinarla alla prima occasione, per appenderla come un ennesimo trofeo di caccia.
Prequel de “Il dentista” . Torna Umberto Minichini .
Il dentista 2 – le origini è un prequel/ sequel de “Il dentista”, sempre diretto da Souleymane Kane con protagonista Umberto Minichini nel ruolo del dentista “Il Dottor Guidi”.In questo episodio il regista Souleymane Kane ci porta alle origini del male, quando una scelta era ancora possibile e ci porta ad un finale grandioso, lasciandoci col fiato sospeso in attesa del capitolo conclusivo. Anche stavolta la sceneggiatura è scritta da Davide Borgobello.
Una produzione SJK Productions
Un film di Souleymane Kane
Sceneggiatura di Davide Borgobello
Soggetto di Souleymane Kane
Con Umberto Minichini, Barbara Dall’Armi, Rita Esposito, Claudia Russo e Cinzia Visentini, Alessandra Mauro, Daniel Sferragatta.
Musiche di Kevin MacLeod e Marco Tonutto
Casting di Claudia Russo
Fotografia e Montaggio di Souleymane Kane
Color correction di Marco Tonutto
Prodotto da Souleymane Kane, Umberto Minichini e Melissa Alcantara
Regia di Souleymane Kane
OBSOLESCENZA PROGRAMMATA – Il motore segreto della nostra società di consumo
Francesco Bevilacqua nell’articolo ” Consumi. Come difendersi dall’obsolescenza programmata” apparso il 14 agosto 2013 su “Il Cambiamento” definisce così l’obsolescena programmata: “Sono diversi i fattori che rendono obsoleto un bene e molti di essi possono essere pilotati, cioè prestabiliti da qualcuno che ha interesse a determinare con buona precisione la durata della vita di un bene. Eccoci così giunti al concetto chiave, che può essere riassunto in due semplici parole: obsolescenza programmata, anche se oggi designer, progettisti e pubblicitari preferiscono usare il più elegante ‘ciclo di vita del prodotto’”.
Nel bellissimo documentario di Cosima Dannoritzer intitolato Comprar, tirar, comprar – La historia segreta de la obsolescencia programada, una produzioneArticle Z (Francia Media) e 3.14 (Barcelona) per le televisioni Arte (Francia), TVE e Televisió de Catalunya , viene spiegato come la nostra società si basa sul fatto che tutti i prodotti devono avere una vita limitata: lampadine, calze di nylon, stampanti per computer, telefonini, Ipod. Le società produttrici chiedono ai loro ingegneri di prevedere in anticipo quanto tempo resisteranno gli articoli prima di rompersi e tutto il sistema incoraggia i consumatori a acquistarne dei nuovi.
THE DARKNESS UNICA DATA ITALIANA Sabato 2 agosto 2025 – MAJANO (UDINE), AREA CONCERTI FESTIVAL_Ore 21.30 Biglietti in vendita sui circuiti Ticketone e Vivaticket dalle 11.00 di martedì 10 dicembre. Tutte [...] The post THE DARKNESS – Unica data italiana nell’estate 2025 per la band britannica. Saranno protagonisti sabato 2 agosto al FESTIVAL DI MAJANO first […]
PANDORO O PANETTONE? A NATALE GELLIVS ACCONTENTA TUTTI I GUSTI Mango e passion fruit, olio evo e limone candito, tiramisù: lo chef Alessandro Breda con l’aiuto di due maestri pasticceri [...] The post Pandoro o panettone? A Natale Gellivs accontenta tutti i gusti first appeared on EFFE RADIO. […]