Cinema

Lourdes di Jessica Hausner, Austria/Francia 2009, con Sylvie Testud

Lourdes
di Jessica Hausner, Austria/Francia 2009, con Sylvie Testud

 

Del soggiorno a Lourdes di Christine, gravemente malata e costretta sulla sedia a rotelle; della sua improvvisa e forse miracolosa guarigione; delle reazioni che la guarigione scatena in lei e negli altri: a questo si può ridurre l’intreccio di un film laconico. E lento: il racconto è disseminato di pause, come se si volesse dare spazio alla riflessione dello spettatore non dopo, non fuori dal cinema e parlando con altri, ma durante, dentro, con se stesso. Giusto, perché è anche un film ambiguo, a tratti disorientante. Qualcuno vi ha visto “l’evidente satira anticlericale”, qualcun altro “l’orgogliosa dichiarazione di ateismo”, un altro “il mistero della fede”; ma Lourdes non dà ragione a nessuno: si ferma sempre poco prima di definire e prendere posizione nel merito. Ma allora cos’è che rende magnetico un film così sospeso, ellittico, statico? L’eccezionale efficacia cinematografica che raggiunge nel raccontare un mondo autonomo e distante e le persone che lo abitano, i riti che lo tengono in vita, il clima che lo caratterizza. Attraverso il rigore della fotografia e della composizione dell’inquadratura, una recitazione straniata e controllatissima, una certa freddezza, il film arriva a sfiorare quel punto estremo in cui la sensazione di oggettività documentaristica coincide con la massima stilizzazione. Accostando immagini e sentimenti distanti (l’interrogativo sulla salvezza dell’anima e la barzelletta sulla madonna; le sale opprimenti dell’albergo e i luminosi campi lunghi sul santuario e sui paesaggi naturali; la solennità dei riti e il pettegolezzo) Lourdes, come negli spettacoli di funambolismo, trae tensione narrativa e intensità emotiva dalla sua continua e ostinata ricerca dell’equilibrio. Il finale porta alle estreme conseguenze questa strategia: è il punto in cui tutti vorremmo delle risposte e invece niente, sono ormai partiti i titoli di coda e rimaniamo come Christine, in bilico tra la beatitudine del miracolo e l’amarezza della disillusione. Nessuna risposta. Lourdes rinuncia alla parola definitiva sul miracolo, mistero per eccellenza, ma accoglie tutte le possibilità narrative di una realtà umana per eccellenza: la contraddizione.

Giovanni Andrea Caruso
Primo Premio a Ring! 2010
Sezione Recensioni
Cinema

69a MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA – VENEZIA 2012 Venezia 69, Episodio III: il ritorno del poeta Kim

47973-1Per una volta, i rumors si sono rivelati esatti. Fin dalla sua prima proiezione, Pietà di Kim Ki-duk era divenuto il peso massimo su cui puntare per il Leone d’Oro. Tutti d’accordo quindi? Mica tanto. Anzitutto, per l’innegabile prevedibilità del verdetto. Perché la parabola del regista eremita, ex operaio di Seul che conquista i favori dei festival con una manciata di opere dense di lirismo (L’isola, 2000; Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, 2003; Ferro 3, 2004; L’arco, 2005; Soffio, 2007), per poi entrare in crisi esistenziale riemergendone dopo quattro anni di silenzio, era l’unica “favola bella” già scritta e preconfezionata della Mostra. Talmente tanto che, nonostante la critica internazionale avesse ampiamente deciso che i film migliori della kermesse fossero Après Mai di Assayas e The Master di Paul Thomas Anderson, veniva dato comunque per vittorioso il lungometraggio coreano. Sia chiaro, Pietà non è assolutamente un lavoro inutile o inferiore rispetto alla – notevole – media vista al Lido quest’anno. Solo che, come ha avuto modo di sottolineare Paolo Mereghetti sulle pagine dello Spettacolo del Corriere della Sera, di fronte all’operato di Kim si ha sempre la sensazione di assistere a qualcosa di “più furbo che bello”. Nello specifico, Pietà ci presenta il carattere dei personaggi nelle prime scene per colpire basso chi guarda: la violenza dell’esattore protagonista è feroce e smodata, così come la sottomissione della madre supera ampiamente la soglia del masochismo. Nemmeno la giuria capitanata da Michael Mann ha saputo allontanarsi dalle previsioni, palesando nella serata di chiusura una evidente confusione e impreparazione: dopo aver dichiarato che avrebbe attribuito un solo premio ad opera ne dà due a The Master, oltretutto confondendo il Leone d’Argento del film di Anderson con il Premio Speciale della Giuria dell’austriaco Paradies: Glaube (e se non ci fosse stata Laetitia Casta a ristabilire l’ordine? Saremmo qui a parlare di un altro palmares?). Un disastro, che forse negli anni passerà in secondo piano solo grazie alla presenza “post atomica” di Kim Ki-duk, che dopo essere salito sul palco in pantofole, braghe di tela e giacca contadina con bottoni d’osso, come ringraziamento ha intonato “Arirang”, vero inno nazionale alternativo di Corea. Per quanto si sia parlato di una giuria che molto ha discusso, valutando le opere in gara secondo precisi criteri di merito, capacità di evocare emozioni, ambizione e valore estetico, non si può certo dire che il termine più calzante per definire la commissione sia stato “coraggio”. L’Italia doveva vincere qualcosa, e così è stato, con i contentini a casaccio dati a E’ stato il figlio (Premio per il miglior contributo tecnico, forse l’elemento di meno spicco nel lavoro di Ciprì) e a Bella addormentata (Premio Mastroianni all’emergente Fabrizio Falco). E per l’inevitabile politically correct è arrivata anche la Coppa Volpi a Hadas Yaron, protagonista dell’israeliano Fill the Void. Bocciati senza appello i film di rottura La cinquième saison e Spring Breakers (potenziale jolly per tutte, ma proprio tutte, le categorie), così come è rimasto inopinatamente a secco il traumatizzante Thy Womb di Brillante Mendoza. Ma del resto, fin dalle intenzioni il nuovo corso di Alberto Barbera nasceva sotto il segno dell’austerità e del basso profilo. E niente meglio di un’opera come Pietà, che invita “a resistere alla crudeltà del capitalismo che uccide gli esseri umani” (Kim Ki-duk dixit), avrebbe potuto ribadire il concetto.

Filippo Zoratti

Cinema

Alessandria, 1-2-3 ottobre 2010 Ring! Il Cinema Parlato (e Scritto)

Ring 3
I critici salgono sul ring. E si studiano, si scazzottano, si temono e infine si stringono rispettosamente la mano al suono del gong. L’abile metafora pugilistica che scandisce i vari appuntamenti del ricco programma ben inquadra lo spirito del Festival della Critica Cinematografica, kermesse giunta alla sua nona edizione e oramai giovane certezza nel panorama festivaliero italico. Nella tre giorni alessandrina la “professione ingrata, difficile e poco nota” (per dirla con Truffaut) del critico passa sotto i riflettori e si apre al confronto/scontro con se stessa e i suoi demoni. Un evento cinematografico non fondato (solo) sulla visione ma (soprattutto) sulla discussione, sulle parole e sul dialogo. Cinema parlato, descritto e vivisezionato da quelle stesse firme che siamo soliti leggere sui giornali e sulle riviste on-line.

 

Sul palco del Teatro Comunale di Alessandria e del Teatro di San Baudolino anche quest’anno si sono avvicendate le prestazioni critiche delle migliori penne nostrane: da Luca Malavasi a Paolo Mereghetti, da Bruno Fornara a Pier Maria Bocchi, da Roy Menarini ad Alberto Pezzotta e Filippo Mazzarella; senza dimenticare Morando

Morandini, memoria storica quanto mai coriacea e battagliera.

L’inevitabile rischio di una deriva autoreferenziale, del cinema che parli di sè incensandosi naturalmente c’è, ben mediata tuttavia dal clima dialogico e ironico che si instaura col pubblico, sempre invitato ad esprimere il proprio parere e da alcuni appuntamenti creati ad hoc, in grado di guardare oltre i confini della Settima Arte (pur partendo da essa). A cominciare dall’intervista a Leonardo Romanelli, critico gastronomico e volto noto del programma tv Chef per un Giorno; proseguendo con lo Shadow Boxing, autoanalisi critica intrisa di ricordi di vita personali che quest’anno ha avuto per protagonisti Bocchi, Pezzotta e Giulia Carluccio; e, dulcis in fundo, concludendo (in ogni senso) con la proiezione de L’Uomo con la Macchina da Presa di Dziga Vertov, impreziosito dall’accompagnamento musicale dal vivo della pianista Silvia Belfiore.

 

Veri e propri cardini e leit motiv di Ring! fin dai suoi esordi, i match – vibranti botta & risposta tra critici – sono stati anche quest’anno i momenti forse più accesi e discussi, anche grazie alle tematiche affrontate, quanto mai attuali: in modo colto ma non aristocratico si è discusso del futuro (presunto) del 3D, dell’evoluzione/involuzione artistica di Tim Burton e dello stato (comatoso?) della Commedia all’italiana. E nella memoria degli spettatori sono destinati a rimanere anche gli appaganti incontri coi Pesi Massimi Elisabetta Sgarbi (sorella di Vittorio e autrice sperimentale e indipendente) e Michelangelo Frammartino, regista di Le Quattro Volte, unica sorpresa del cinema italiano di questa annata e film che ha incantato la platea di Cannes.

 

Ma questa manifestazione è anzitutto un concorso. Il festival ospita infatti il Premio Adelio Ferrero (nato ben prima di Ring! e arrivato alla sua 30esima edizione), la ciliegina sulla torta che fa di Alessandria una vera e propria “oasi nel deserto”. Il concorso offre ai giovani interessati alla scrittura la possibilità di partecipare con un saggio o una recensione di argomento cinematografico (ovviamente), di essere selezionati e ospitati per tutta la durata del festival e di vincere 1000 (per il saggio) o 400 euro (per la recensione). Un’occasione imperdibile e di facile accesso, da cogliere al volo superando gli ostacoli della pigrizia e della timidezza.

Ed ecco allora i vincitori del 2010: il saggio “Ideologia e Montaggio: il secolo del Cinematografo secondo Edoardo Sanguineti” di Marco Longo e le recensioni di Giovanni Andrea Caruso sul film Lourdes (primo premio) e di Chiara Zingariello su Le Quattro Volte (secondo premio). Pubblichiamo qua di seguito le due recensioni, in una sorta di piccola esclusiva da condividere solo con la rivista di cinema a tiratura nazionale Cineforum. Buone letture.

 

Filippo Zoratti

Cinema

MY PRIVATE ZOO – un documentario sulla situazione in South Africa dopo la fine dell’Apartheid

Gianni Sirch e Ferruccio Goia hanno realizzando un eccezionale documentario sulle condizioni in South Africa a 20 anni dalla fine dell’Apartheid. Qui di seguito potrete guardare il trailer.

MY PRIVATE ZOO – TRAILER 2012 from My Private Zoo on Vimeo.

 

Questo documentario ha  partecipato al VISIONS DU REELFestival international de cinema di Nyon, nella sezione Docs In Progress e al Trieste Film Festival

 

 

Cinema

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