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Cinema

71a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Venezia 2014

roycopia

Terza (e ultima) puntata:
Riflettendo sull’esistenza (dei festival)

di Filippo Zoratti
 

Le vittorie del filippino “From what is Before” a Locarno e di “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence” alla 71a Mostra del Cinema di Venezia riaprono di gran carriera la questione ciclica dell’utilità dei festival d’Arte. Se per inquadrare il film di Lav Diaz basterebbe osservarne la durata – poco meno di sei ore, in cui si racconta il dramma di una comunità di contadini sconvolta dalla nascente dittatura di Marcos – per comprenderne lo scarso appeal verso le grandi platee, l’opera grottesca dello svedese Roy Andersson sembra sulla carta scendere più pacificamente a patti con una fruizione più “classica” se non addirittura comica e quindi, sempre in teoria, vicina ai gusti del pubblico. In realtà il lunare Leone d’Oro richiede una straordinaria complicità in chi guarda: occorre, per divertirsi, stare al gioco e accettare anche che il cineasta ci prenda un po’ in giro, in quanto parte integrante di quell’umanità derisa lungo tutta la serie di sketch che compongono la pellicola. Per chi – come il sottoscritto – ha assistito alla proiezione post-premiazione (dedicata al 90% allo spettatore occasionale, ovvero a chi vede un solo film all’anno della Mostra e desidera assistere al presunto “migliore” della selezione) lo shock è stato notevole: fischi assordanti, mutismo totale anche durante le sequenze (Lotte la zoppa!) già di culto fra i frequentatori della Mostra, croniche emorragie di gruppi di persone che dopo una trentina di minuti hanno cominciato ad uscire indignati dalla sala. Ora, lungi da noi decidere a tavolino cosa sia buon cinema e cosa no, restano sul piatto alcune questioni fondamentali: il divario – macché divario, abisso – fra “addetti ai lavori” (critici, cinefili festivalieri, maestranze varie) e “pubblico”, anzitutto, seguito a ruota da una sorta di “analfabetismo filmico” dell’utente che non comprendendo il medium che ha di fronte non ragiona ma si limita superficialmente a disprezzare e rigettare. Qual è il compito di una giuria, dunque? Decidere in autonomia il prodotto più meritevole e magari concedergli la visibilità che altrove non avrebbe o (quasi) al contrario scegliere anche tenendo conto della spendibilità dell’Opera d’Arte, in modo da “accontentare” anche chi, economicamente parlando, tiene in vita il sistema cinema? Seguendo quest’ultima via, il vincitore perfetto sarebbe stato il russo “The Postman’s White Nights”, cui invece è andato il Leone d’Argento, con la sua storia sufficientemente lineare tale da dare la sensazione allo spettatore di imparare qualcosa senza eccessivo sforzo. Invece Alexandre Desplat & Co. – non potendo assegnare il riconoscimento più alto a “The Look of Silence”, giacché si sarebbe trattato del secondo felino d’oro ad un documentario in due anni – hanno scelto “A Pigeon”, e si è scatenata la tempesta. Purtroppo di Andersson così come di Lav Diaz sentiremo ben poco parlare, a meno di miracoli, e di certo non per la scarsa qualità delle rispettive pellicole. La totale mancanza di familiarità con testi eterogenei e articolati del pubblico “medio” affosserà le due opere, magari a favore dell’ennesima commedia posticcia alla Brizzi che seda dolcemente e lascia tranquille le sinapsi a riposare per un paio d’ore (spot compresi). Problemi minori, si dirà, ma è nell’impoverimento culturale che si rispecchia lo stato di salute di una nazione. E allora, come afferma Roy Menarini, “bisogna al più presto introdurre Media Literacy nelle scuole, altrimenti rimarremo l’Italia che vediamo in “Belluscone”.”

Filippo Zoratti

 

Cinema

71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Venezia 2014

Seconda puntata:
Cosa sa il cinema che noi non sappiamo?

di Filippo Zoratti

Nel corso del denso documentario “From Caligari to Hitler”, presentato nella sezione “Venezia Classici” nei primi giorni di questa 71a Mostra, la domanda ricorre almeno in tre occasioni. Mentre scorrono immagini che mettono in relazione l’espressionismo tedesco di Lang, Murnau e Wiene con l’ascesa del Nazismo, la voce off si e ci chiede: cosa sa il cinema che noi non sappiamo? Durante i Festival, luoghi deputati più al marketing e al glamour che alle “tangibili” scoperte della Settima Arte, il pubblico (di qualunque tipo esso sia) dovrebbe muoversi con in testa solo questo obiettivo. Se la direzione artistica di Alberto Barbera ha un merito, in fondo è proprio quello di aver sostituito all’occhio passionale e cinefilo di Muller (pur encomiabile) una visione maggiormente “critica” ed esplorativa del cinema. Barbera farebbe a meno del Concorso, lo abolirebbe. Una dichiarazione (meglio, una provocazione) che viene però in un’annata della Mostra in cui per ora (a quattro giorni dalla chiusura) le vere scoperte si contano sulle dita di una mano. Nei primi giorni ci siamo fatti ingannare dall’apertura di “Birdman” e dal successivo “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer. Due lavori che rispondono alla domanda iniziale, due film che mostrano qualcosa che non ci aspettavamo né conoscevamo: la sfrontata creatività di un inedito Inarritu da una parte – caleidoscopio di follie attoriali, teatrali e umane – e il secondo capitolo di un dramma civile che già avevamo imparato a conoscere e amare grazie a “The Act of Killing”. Il cinema sa quindi ancora stupirci e saziarci, rapirci e farci dimenticare tutto il resto; sa, in una parola, insegnarci. Un exploit purtroppo mai più ripetuto, se non proprio in quei “Classici” che semplicemente avevamo dimenticato: da “Todo Modo” all’esplosione ultra-oltre-mega onirica di “The Tales of Hoffmann”, fino al ritorno ai potenti e attualissimi Kieslowski (“Senza fine”) e Mankiewicz (“Bulli e pupe”). Tutt’intorno però abbiamo via via visto cadere uno dopo l’altro i film più attesi: “One on One” di Kim Ki-duk, che ripete se stesso all’infinito; “The Humbling” e “Manglehorn”, one man show di Al Pacino che travolgono tutte ciò che incontrano sulla propria strada; “La rançon de la gloire” e “3 Coeurs”, stanche ripetizioni degli stilemi della commedia e del dramma francese che ormai mandiamo a memoria; “Tales” e “Loin des hommes”, di autori sconosciuti dai quali sarebbe stato lecito attendersi qualcosa in più del compito ben svolto, data la loro presenza nel Concorso. Una selezione media e talvolta mediocre, che ci ha fatto saltare di gioia quand’anche di poco si è alzata l’asticella della qualità. Si è gridato al capolavoro per “Il giovane favoloso” di Martone e per il grottesco e lunare “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence” di Roy Andersson, ma sorge spontaneo il dubbio che non siano le nostre aspettative ora ad essersi abbassate. Visto così, pare che il cinema di sicuro una cosa la sappia, e cerchi di nascondercela: la propria crisi di forme e contenuti. Ma siamo pronti ad essere smentiti. Siamo pronti, ancora una volta, ad entrare in sala e scordarci di noi stessi, per imparare ciò che ancora non sappiamo.

                                                                                                                                                                              Filippo Zoratti

Cinema videomaker

OBSOLESCENZA PROGRAMMATA

OBSOLESCENZA PROGRAMMATA – Il motore segreto della nostra società di consumo

Francesco Bevilacqua nell’articolo ” Consumi. Come difendersi dall’obsolescenza programmata” apparso il 14 agosto 2013  su “Il Cambiamento” definisce così l’obsolescena programmata: “Sono diversi i fattori che rendono obsoleto un bene e molti di essi possono essere pilotati, cioè prestabiliti da qualcuno che ha interesse a determinare con buona precisione la durata della vita di un bene. Eccoci così giunti al concetto chiave, che può essere riassunto in due semplici parole: obsolescenza programmata, anche se oggi designer, progettisti e pubblicitari preferiscono usare il più elegante ‘ciclo di vita del prodotto’”.

Nel bellissimo documentario di Cosima Dannoritzer intitolato Comprar, tirar, comprar – La historia segreta de la obsolescencia programada, una produzione Article Z (Francia Media) e  3.14  (Barcelona) per le televisioni  Arte (Francia), TVE e Televisió de Catalunya , viene spiegato come la nostra società si basa sul fatto che tutti i prodotti devono avere una vita limitata: lampadine, calze di nylon, stampanti per computer, telefonini, Ipod. Le società produttrici chiedono ai loro ingegneri di prevedere in anticipo quanto tempo resisteranno gli articoli prima di rompersi e tutto il sistema incoraggia i consumatori a acquistarne dei nuovi.

 

Link e fonti: http://la2.rsi.ch/home/networks/la2/cultura/La2Doc/2013/05/14/la2doc-20-mag.html
Daniele Pernigotti: La stampa “Una società dei consumi a obsolascenza programmata
Francesco Bevilacqua: Il Cambiamento “Consumi. Come difendersi dall’obsolescenza programmata

Cinema

Torino Film Festival 31^ edizione

TFF 2013  Terza (e ultima) Puntata: il trionfo della (meglio) gioventù

di Filippo Zoratti
 

Il palmares finale della 31a edizione del Torino Film Festival parla chiaro: a trionfare sono stati i film legati alla fanciullezza, filtrati attraverso punti di vista legati eppure differenti fra loro. Il vincitore secondo la giuria guidata da Guillermo Arriaga è “Club Sandwich” del messicano Fernando Eimbcke. Un esito forse inatteso, anche se il regista è un aficionado del festival, avendo già presentato all’ombra della Mole nel 2008 il suo primo lungometraggio “Lake Tahoe”. Anche per questo probabilmente la sua opera è da subito rientrata fra le papabili per la vittoria: o quest’anno o mai più, dato che il ferreo regolamento non permette di accedere alla competizione a lavori successivi al secondo. E’ stato facile innamorarsi di “Club Sandwich”, e provare tenerezza per le sue sghembe dinamiche: la storia ci parla di Hector e Paloma, ragazzino 15enne l’uno e mamma single al seguito l’altra, che passano le vacanze in un albergo vicino al mare. Concentrati in un’ora e venti ci sono i giochi, gli scherzi, la complicità e poi d’improvviso la frattura, nel momento dell’incontro con la giovane Jazmin. Tra Jazmin ed Hector scatta l’attrazione, mentre la madre storce il naso e si intromette fra i loro primi maldestri tentativi sentimentali. Mamma Paloma scopre sconvolta che il proprio figlio può provare desiderio sessuale e si mette da parte, soffrendo per il necessario distacco “ombelicale”. Ed è curioso notare come nell’altro grande vincitore di questa annata, il venezuelano “Pelo Malo” accada in un certo qual modo il contrario. La pellicola – che porta a casa due premi, miglior attrice a Samantha Castillo e miglior sceneggiatura – è un desolato dramma sociale ed esistenziale che ribalta un punto di vista consolidato ponendo al centro una vicenda di maternità negata. La giovane madre Marta, vedova e disoccupata, odia suo figlio Junior. Punto. Lo odia perché siamo nella periferia scalcinata di Caracas, terra di isolamento e intolleranza, e la piccola passione del bambino può essere fraintesa: Junior infatti vuole potersi stirare gli scarmigliati capelli e assumere le sembianze di un cantante alla moda, per fare bella figura nella foto di classe. L’amore materno, questione istintuale nel film di Eimbcke, in “Pelo Malo” si fa dovere privo di emozione, che si riflette nel disagio di un’intera nazione terrorizzata, fotografata nel momento dell’ultimo ricovero del leader Hugo Chavez. Anche il premio del pubblico “La mafia uccide solo d’estate” di Pif parte da un contesto personale (la vita del piccolo Arturo) per affrontare una storia “nazionale”, quella della mafia italiana dall’elezione a sindaco di Palermo di Vito Ciancimino in poi. Così, mentre il ragazzo cresce con due ossessioni – l’amore per Flora e l’ammirazione per Giulio Andreotti – il neo regista mescola lo stile di (auto)analisi civile di “Il testimone” con la voglia di scoperchiare con sarcasmo e inedita tenerezza gli scheletri nell’armadio italici. Chi è rimasto fuori? Per chi scrive il francese “La battaglia di Solferino” (nella top ten 2013 dei Cahiers du Cinema), il doc italiano “ Il treno va a Mosca” del duo Ferrone-Manzolini e lo spagnolo “La Plaga”. E un po’ fuori dai giochi è rimasto anche il neo-responsabile Paolo Virzì. A posteriori la sua guida è stata più che in sordina, ben attenta a non inficiare gli equilibri preesistenti. Al di là della ventata di brio portata dall’autore toscano, il TFF è una macchina talmente ben oliata da andare avanti di anno in anno quasi in automatico (merito di Emanuela Martini e dei suoi fidi collaboratori). A chi dirige restano un po’ le briciole, e la forte sensazione è che questa di Virzì sia stata un’annata di passaggio, per traghettarci da Gianni Amelio a… ? Il toto-direttore per la 32a edizione è aperto.

Filippo Zoratti

 
 
 
 

Cinema

Torino Film Festival 31^ edizione

 TFF 2013 Prima Puntata: Virzì, atto primo

 di Filippo Zoratti

Come sarà il Torino Film Festival del neo-direttore artistico Paolo Virzì? Sarà tradizionalista o più apertamente pop? Ricalcherà il segno lasciato dai predecessori Nanni Moretti e Gianni Amelio o sterzerà verso una visione dell’industria Cinema più simile alla cultura e allo stile del regista livornese? Chi, nei giorni precedenti all’inizio della kermesse, ha cercato di “leggere” il ricchissimo programma interpretandone i segni, s’è trovato davanti una quantità – e qualità – di sollecitazioni di non immediata e univoca comprensione. Lui, il cineasta divenuto a sorpresa responsabile artistico, sembra mettere subito le mani avanti: “Voglio capire come andrà questa edizione, e poi decidere se continuare o meno. Dopotutto, fare il direttore non è il mio mestiere”. Del resto, smuovere la fortissima e consolidata identità di un evento come quello torinese (che per regolamento accetta in gara solo opere prime e seconde) non è impegno da poco. E non è da poco neanche mettere a frutto i “soli” due milioni e 400 mila euro di budget. Il primo colpo d’occhio è tutto per la titanica retrospettiva sulla New Hollywood, talmente articolata da durare due edizioni: da “Gangster Story” a “L’ultimo spettacolo”, da “Easy Rider” ad “Un uomo da marciapiede”, fino a “Woodstock” e “Pat Garrett e Billy the Kid”. Il piatto è ricchissimo (36 titoli) e Virzì non nasconde la sua emozione nel poter presentare sotto la sua egida le opere che hanno segnato la propria generazione. Torino conservatrice quindi? Mica tanto, dato che dall’altra parte della barricata spunta la nuova sezione “Big Bang Tv”, dedicata alla davvero non più trascurabile serialità televisiva. Dopo Venezia, Cannes e Sundance, anche il TFF si apre a miniserie e pilot d’autore: “House of Cards”, prodotta da David Fincher e interpretata da un luciferino Kevin Spacey; “Top of the Lake”, scritta da Jane Campion; “Southcliffe”, lavoro britannico già passato a Toronto. L’idea di fondo è quella di mantenere viva l’anima più cinefila insita nel dna della manifestazione, aprendo però all’innovazione tecnologica e all’entertainment vivace, come dimostra anche la scelta del film di apertura, ricaduta sul goliardico “Last Vegas”. La trentunesima edizione (ancora nelle parole del direttore) sulla carta si propone come un unico grande film fatto di voci diverse. Tantissime voci – pure troppe? – considerando l’importanza delle sezioni “Festa Mobile”, che per qualcuno è il vero concorso, e “Onde”, che ospiterà fra gli altri il vincitore del Festival di Locarno “Storia della mia morte” di Albert Serra, “Hotel del l’Univers” di Tonino De Bernardi e l’ormai imprescindibile cinematografia greca, con “Luton” e “To the Wolf”. E la gara ufficiale? C’è, ma come ogni anno corre forse il rischio di restare schiacciata dal resto delle proposte. L’attesa più significativa è per l’esordio alla regia di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, ma gli sguardi sono anche puntati sul già favorito “La battaglia di Solferino”, sullo spagnolo “L’infestazione – The Plague” e su “Pelo Malo”, vincitore dell’ultimo Festival di San Sebastian. A riunire tradizione e innovazione dunque c’è uno spirito vivace e aperto alle contaminazioni, che addirittura comprenderà spettacoli di strada e concerti, con la BandaKadabra che suonerà per la città. Torino sembra muoversi all’opposto dell’acerrima nemica Roma, che con Marco Muller pare aver intrapreso un nuovo percorso più “serio” e compito. Virzì porta al Torino Film Festival una ventata di leggerezza (che non significa superficialità) e vitalità. Un ottimo proposito, che tuttavia non deve assolutamente mettere in secondo piano il cuore pulsante dell’evento: i film.

Filippo Zoratti