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Cinema

55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

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55. Vienna International Film Festival Viennale 2017: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti
  1. Ex Libris – The New York Public Library”, Usa 2016, di Frederick Wiseman

C’è qualcosa di commovente, puro e persino ingenuo nel modo in cui Frederick Wiseman, 87locandina anni, guarda all’umanità. Al centro di “Ex Libris” c’è la biblioteca pubblica di New York – con le sue 92 filiali dislocate tra Manhattan, il Bronx e Staten Island – e c’è più di ogni altra cosa la vita in divenire, la presa diretta di convention con studiosi e cantanti (Elvis Costello), riunioni del direttivo (argomento: la riduzione del divario digitale), bizzarre richieste di prestito (ma gli unicorni esistono sì o no?), corsi di scrittura per bambini. Ad unire il flusso eterogeneo degli incontri, l’idea indefessa di fiducia nella cultura che genera per naturale e quasi ovvia conseguenza democrazia. “Ex Libris” documenta il reale senza corrompere, modificare o forzare il significato delle immagini, con una limpida morale che viene da sé: la dignità umana passa inevitabilmente attraverso l’accesso all’informazione e allo scambio aggregativo, si tratti di una conferenza da migliaia di persone o di uno sparuto gruppo di persone sedute attorno ad un tavolo.

  1. A Ghost Story”, Usa 2017, di David Lowery

Si può prendere sul serio un film in cui il protagonista, a seguito di un incidente stradale mortale, ritorna come fantasma munito di lenzuolo con buchi per gli occhi? Le regole del gioco imposte dal regista David Lowery sono essenzialmente due: la totale sospensione dell’incredulità nei confronti della storia raccontata e un’idea di cinema che pone molte domande senza necessariamente poi fornire ghost1pedissequamente tutte le risposte. “A Ghost Story” è un prodotto ipnotico privo di confini narrativi (in paradossale contrasto con l’espediente tecnico del 4:3 ad angoli smussati) che flirta con i cliché del genere horror chiedendoci al contempo di guardare oltre, molto oltre. Fra l’atto del guardare e quello dell’attendere – resi attraverso stacchi di montaggio e brusche ellissi – c’è un film che riesce a dare forma e sostanza ad un concetto non rappresentabile: l’assenza. Un’assenza dolorosa e straziante (per chi resta e per chi non c’è più), che svilisce i ricordi e sfuma il senso della nostra identità.

  1. A Skin So Soft”, Canada/Francia/Svizzera 2017, di Denis Côté

È con lo stupore del neofita che il regista canadese Denis Côté si approccia al gruppo di cultuskin2risti e super-uomini protagonisti di “A Skin So Soft”. Fonte primaria di ispirazione per il filmmaker quebecchese sono i microcosmi a lui stesso estranei, da indagare con ingenuità e senza conoscenze pregresse. La quotidianità dei sei ingombranti bodybuilders Jean-François, Ronald, Maxim, Benoit, Cédric e Alexis non è mai filtrata attraverso lo stereotipo o la presa in giro: c’è chi piange mentre fa colazione, guardando video motivazionali su Youtube; chi a fine carriera si è reinventato maestro di vita/chinesiologo; chi cerca di convincere la propria perplessa compagna a coltivare la medesima passione; chi si allena in modo anomalo rispetto agli altri, perché wrestler e non culturista tout court. È un mondo parallelo ma non troppo, in cui emerge la fragilità dell’essere umano vittima delle proprie fissazioni. Verso l’infinito e oltre, alla ricerca di una personale, bislacca e muscolare idea di felicità.

  1. I Am Not Madame Bovary”, Cina 2016, di Feng Xiaogang

Assecondando la smania occidentale di etichette e classificazioni, si è soliti definire il registbovary1a Feng Xiaogang – in virtù di una carriera costellata di blockbuster di successo – “lo Steven Spielberg cinese”. Astutamente verboso e squisitamente fluviale, “I Am Not Madame Bovary” non è un film sulla Madame Bovary flaubertiana, ma su “una” Madame Bovary che rifiuta tale disdicevole appellativo. La storia ruota attorno a Li Xuelian, moglie caparbia che finge di divorziare dal marito per poter ottenere un appartamento in città. Incubo kafkiano e al contempo favola trasognata, “I Am Not Madame Bovary” ci trascina nelle segrete stanze del sistema legale cinese e dei suoi labirinti burocratici attraverso l’insolito utilizzo di un iris tondo che coincide con lo stato d’animo soffocato della protagonista. Incastrato in un meccanismo amorale e inestricabile, l’uomo è una delle microscopiche parti di un sistema abnorme e complesso; ma, come ammette uno dei burocrati perseguitati da Li Xuelian, “un seme è diventato un cocomero, una formica è diventata un elefante”.

  1. Closeness”, Russia 2017, di Kantemir Balagov

C’era molta curiosità attorno all’esordio alla regia di Kantemir Balagov, 26 anni, allievo prediletto del maestro Aleksandr Sokurov (“Arca russa”, “Faust”). “Closeness” a Cannes ha conquistato tutti, closenesscon il suo stile asciutto e la sua idea di cinema stratificata e coerente. La storia del film necessita della conoscenza pregressa della Storia di una nazione: siamo nel 1998 a Nalchik, capitale della Repubblica di Kabardino-Balkaria, a cavallo fra le due guerre cecene. Per quanto ben integrata, la comunità ebraica locale preferisce non dare nell’occhio, restare in disparte e risolvere le cose al suo interno. L’incubo in cui sprofonda la famiglia della giovane Ilana assume dunque connotati ancora più torbidi: suo fratello e la sua ragazza vengono rapiti, e la richiesta di riscatto è altissima. Che fare? Impossibile rivolgersi alle autorità, impossibile trovare una soluzione che non contempli il sacrificio e la perdita della dignità. La fitta tela ordita dal demiurgo Balagov imbriglia il nucleo familiare protagonista e noi spettatori, complice il formato 4/3 che rinchiude e aumenta il senso di claustrofobia.

Filippo Zoratti

Cinema

55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

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55. Vienna International Film Festival Viennale 2017

di Filippo Zoratti
 

Dedicato alla memoria di Hans Hurch, storico direttore della Viennale prematuramente scomparso a luglio a causa di un attacco di cuore e figura cruciale della cultura austriaca, il Vienna International Film Festival 2017 conferma la propria natura di showcase onnicomprensivo e capillare, capace di indagare la Settima Arte a 360° senza snobismi di sorta. Il ricchissimo programma della 55a edizione parte come hans-hurchsempre dalla selezione ufficiale – che non è una gara, non c’è competizione – composta dai migliori titoli visti nei festival internazionali durante l’anno: dai veneziani “The Shape of Water” e “Downsizing” ai cannensi “120 battiti al minuto” e “The Day After”, dai berlinesi “On the Beach at Night Alone” e “Golden Exits” agli svizzeri (passati cioè a Locarno) “La telenovela errante” e “Nothingwood”. In mezzo scorrono i piccoli/grandi casi cinematografici di cui si è molto parlato in questi mesi – su tutti il cinese “I Am Not Madame Bovary”, l’americano “A Ghost Story”, il franco-belga “Grave – Raw ”, il tedesco “Licht” – e soprattutto la consueta babele di sottosezioni, retrospettive, special programs e tributi. Nell’impossibilità di riassumere tutta la variegata proposta (a meno di non cedere alla banalità dell’elenco) vale forse la pena affrontare brevemente quelli che sono i focus più anomali e imprevedibili, fiori all’occhiello di una kermesse che segue e ha sempre seguito una propria personale analisi dell’audiovisivo. A partire dalla sezione “Napoli! Napoli!”, incentrata sulle opere contemporanee partenopee. Trovano qui asilo le “Appassionate” di Tonino De Bernardi (evento nell’evento, considerando la carriera underground dell’autore torninese), “L’uomo in più” di Sorrentino e buona parte della produzione di Pappi Corsicato, Mario Martone e Antonio Capuano. Tra il più facilmente inquadrabile omaggio a Christoph Waltz – special guest dell’edizione – e la conferma del cosiddetto “Analog Pleasure” che riporta l’attenzione sui

Christoph Waltz

Christoph Waltz

formati desueti in via di estinzione causa avvento del digitale (qui spiccano le scelte di “The Master” di Paul Thomas Anderson, girato in 70mm, e del capolavoro “L’intendente Sansho” di Kenji Mizoguchi) ci sono multiversi da scoprire e moltitudini da sondare. Spazio dunque a nomi pressoché sconosciuti al pubblico italiano: il fotoreporter e regista francese Raymond Depardon, l’attrice austriaca Carmen Cartellieri (in attività per soli 10 intensi anni, dal 1919 al 1929) e l’artista sperimentale tedesco Heinz Emigholtz (di cui saranno proiettati anche gli ultimi lavori “Brickels – Socialism” e “2+2=22”). A chiudere il paniere la consueta mega-retrospettiva del Filmmuseum, che proseguirà la sua corsa anche a Viennale finita (fino al 30 novembre): tocca a “Utopia and Correction”, analisi del cinema sovietico dal 1926 al 1977. Quasi non annunciato infine, nascosto fra le righe come una serata a sorpresa post-festivaliera, il tributo a George A. Romero, con la proiezione del restauro di “La notte dei morti viventi” preceduta dalla performance musicale/teatrale “The Visitor” di Lawrence English. A costo di dire un’ovvietà o di abbandonarsi ad una facile frase fatta: anche quest’anno alla Viennale c’è l’imbarazzo della scelta.

Filippo Zoratti

Cinema videomaker

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Del meglio del nostro meglio: 5 colpi di fulmine

di Filippo Zoratti

1) “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki”, Finlandia 2016, di Juho Kuosmanen
A fare la storia sono davvero i vincitori? “The Happiest Day in the Life of Olli Mäki” – vincitore a sorpresa dell’Un Certain Regard a Cannes 2016 – narra di un gentile e innamorato perdente, che si caccia in una scommessa più grande di lui. Seguendo la tragicomica avventura di un panettiere di Kokkola, suo malgrado pugile e campione d’Europa nella categoria dilettanti che nel 1962 ha la chance di combattere per il titolo dei pesi piuma, Kuosmanen disegna una commedia umana che ricorda i microcosmi disincantati e grotteschi di Aki Kaurismaki. Tutto ciò che circonda il protagonista è anomalo, trasognato, ai confini del nonsense, perché filtrato dal suo punto di vista. La regia sobria ed elegante smonta qualunque afflato epico e competitivo: nelle sessioni di allenamento (così come nel fulmineo incontro per il titolo) non c’è climax, il ritmo è tutto concentrato sulla quotidianità di Olli e sulla sua surreale vita. “Olli Mäki” è la proposta della Finlandia ai prossimi Oscar, in lizza per il Miglior Film Straniero. E se questa favola, pervicacemente opposta all’american dream, facesse breccia nei cuori della giuria?

2) “Daft Punk Unchained”, Francia/Gran Bretagna 2015, di Hervé Martin-Delpierre
“Una cricca di giovani teppisti”. La storia dei Daft Punk inizia così, con una poco lungimirante recensione che il gruppo formato da Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter trasformerà – come loro solito – in oro. Dal 1993 quello dei Daft Punk diventa un marchio indelebile della musica elettronica. “Daft Punk Unchained” è un film alla ricerca di una aneddottica credibile, che renda plausibile l’incontro fra mito e realtà: dai ricordi di Michel Gondry, che sostiene che la nascita degli imprescindibili caschi derivi dalla realizzazione del video di “Around the World”, alla testimonianza di Nile Rodgers, che strimpellando alcune note alla chitarra ha gettato casualmente le basi per “Get Lucky”. Ma quello di Martin-Delpierre è anche un film di interventi e testimonianze, spesso acute (Pete Tong, Pharrell Williams e Giorgio Moroder su tutti). Considerando che i due componenti della band fanno l’impossibile per alimentare l’alone di leggenda attorno al loro lavoro, a “Daft Punk Unchained” non si può chiedere troppo, e in fondo ne siamo felici: buona parte dell’enigma risiede nello spirito ludico della coppia. I robot devono rimanere robot, e noi dobbiamo accettare le regole del gioco.

3) “El castillo de la pureza”, Messico 1972/1973, di Arturo Ripstein
Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino. Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: “El castillo de la pureza” ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, “Dogtooth” di Yorgos Lanthimos e “Miss Violence” di Alexandros Avranas (che, tuttavia, hanno sempre negato). Al netto di alcune significative differenze e di una diversa metaforizzazione, la grottesca conclusione è la medesima: quella del sonno della ragione che genera mostri, nell’ironica creazione di un inferno domestico di un uomo che vuole salvare i suoi cari dall’inferno del mondo esterno. Anche se ora guarderemo con occhi più scettici la natura derivativa di un’onda greca che ci era parsa orginale, inedita, genuina. E che invece era già stata raccontata (meglio) quasi quarant’anni prima.

4) “Homo Sapiens”, Austria 2016, di Nikolaus Geyrhalter
Tra i film che hanno fatto più discutere l’ultima Berlinale (purtroppo non in concorso ma nella sezione collaterale Forum), “Homo Sapiens” è una successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Un prodotto poetico che dimostra come, oltre al sempre ottimo Ulrich Seidl e al suo spaventoso cinema voyeuristico, la cinematografia austriaca sia viva e lotti insieme a noi. E lo stesso discorso vale per l’introspettivo e minimale “Kater”, thriller dell’anima e punta di diamante della Viennale 2016. Ci saremmo aspettati che uno dei due fosse il candidato austriaco ai prossimi Oscar; e invece la scelta è caduta sul forse più internazionale (ma altrettanto trascurabile) “Stefan Zweig, Farewell to Europe”.

5) “La larga noche de Francisco Sanctis”, Argentina 2016, di A. Testa e F. Marquez
Nel corso dei 78 tesissimi minuti di “La larga noche de Francisco Sanctis” non succede nulla, o quasi. Quella del protagonista è una notte da incubo perché, durante gli anni della dittatura militare argentina che va dal 1976 al 1983, finisce suo malgrado in possesso di informazioni sovversive e segrete su di una giovane coppia “desaparecida”. Francisco convive con la dittatura, pur ovviamente non amandola, ma a quel punto dovrà necessariamente fare i conti con la possibile disintegrazione della sua anonima ma sicura vita da impiegato con moglie e figli. Il personaggio non ci viene introdotto, quanto e se credere all’estraneità di Francisco lo dobbiamo decidere noi; di sicuro siamo partecipi della sua notte vagabonda per le strade di Buenos Aires, a caccia di qualcuno a cui “scaricare” la patata bollente per poter infine finalmente tornare a casa. Ma se la sua ricerca avrà successo non è dato sapere: il film – tratto da un romanzo di Humberto Costantini – si ferma magistralmente all’apice del climax, lasciandoci sospesi in un’atmosfera di soffocamento quasi insostenibile, e quasi certi che la rabbiosa frustrazione dell’impaurito Sanctis sia sul punto di esplodere.

Filippo Zoratti

Cinema

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

Il cinema della verità, la verità del cinema

di Filippo Zoratti

Idealmente introdotta dal – non irresistibile – trailer del festival “Cinéma Vérité” diretto da Klaus Wyborny (regista d’avanguardia tanto conosciuto e apprezzato in Germania e Austria quanto carneade nel resto d’Europa) la sezione dedicata ai documentari è stata la più efficace a delineare solidi percorsi di senso e contenuto, all’interno del ricco paniere di programmi speciali, focus e retrospettive proposto come ogni anno dalla Viennale. È nel discusso “Homo Sapiens” di Nikolaus Geyrhalter che possiamo forse individuare l’ariete da sfondamento del gruppo (sono ben 70 le pellicole proiettate), successione di immagini che potrebbero essere state prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo l’apocalisse. E invece il protagonista è il mondo devastato di oggi, o meglio è l’uomo e la scellerata distruzione di cui è inopinatamente capace. Palazzi abbandonati, cinema, scuole, prigioni, parchi divertimento: al centro della cinepresa di Geyrhalter c’è l’abuso che l’homo sapiens – appunto – impone alla natura, senza dialoghi e movimenti di macchina. Una serie impietosa di tableaux vivants dal terribile impatto visivo, ai quali non è necessaria alcuna introduzione. Una presa di coscienza che è anche un monito, e questo ci sembra uno dei fil rouge più evidenti della selezione, attraversato da altri “incubi” di differente collocazione geografica ma portatori del medesimo messaggio: come “Eldorado XXI”, che racconta le condizioni di vita dei lavoratori di una miniera d’oro nel sud-est del Perù; o come “Furusato”, amara ricognizione di ciò che è rimasto a Fukushima dopo il disastro – terremoto più tsunami – che ha portato a quattro devastanti esplosioni nella centrale nucleare omonima. Da un lato il cammino di auto-distruzione degli esseri umani, stravolti dall’illusione dell’arricchimento a scapito di un ambiente sfruttato senza soluzione di continuità; dall’altro una riflessione sui pro e i contro della corsa al progresso, spesso più importante dei rischi e dei sacrifici legati ad essa. E al centro l’uomo, incapace di controllare se stesso e di ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni. Dall’universale al particolare, il “cinema della verità” può essere declinato anche attraverso le istanze del biopic, dell’istantanea biografica e celebrativa di personaggi che a modo loro hanno fatto la storia o hanno contribuito a renderla migliore. Personalità riconosciute all’unanimità o destinate a lavorare sottotraccia, e quindi per questo persino più interessanti: se Joao Botelho fotografa l’arte di Manoel de Oliveira con “The Cinema, Manoel de Oliveira and me”, Salomé Jashi riprende in “The Dazzling Light of Sunset” le avventure dei giornalisti georgiani Dariko e Kakha, uniche fonti d’informazione nella remota città di Tsalenjikha; se Hervé Martin-Delpierre ricostruisce la mitologica carriera dei Daft Punk in “Daft Punk Unchained”, Maya Abdul-Malak (“Des hommes debout”) omaggia l’anonimo proprietario di un call shop a Parigi, piccola patria per gli immigrati mediorientali che grazie alle tre cabine telefoniche del locale possono chiamare i loro lontani familiari. Le visioni non filtrate del documentario ci condannano, palesando con l’inconfutabilità della ripresa “reale” la nostra limitatezza; ma al contempo ci salvano, ricordandoci quanto e cosa siamo capaci di costruire artisticamente e umanamente. Ancora una volta ci chiediamo (magari di fronte all’”Austerlitz” di Sergei Loznitsa): esiste testimonianza migliore della verità offerta dal cinema?

Filippo Zoratti

 

Cinema videomaker

54. Vienna International Film Festival – Viennale 2016

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Kenneth, Jacques, Christopher e gli altri

di Filippo Zoratti
 

Oltre che per la sua invidiabile informalità, la Viennale (nome che omaggia e al contempo canzona la più impettita Berlinale) si distingue per l’entusiasta eterogeneità di contenuto. Il Vienna International Film Festival non prevede competizione, ma solo la “rappresentazione” e la divulgazione delle più interessanti opere passate durante l’anno nelle kermesse del resto del mondo. È il concetto portante dello Spielfilme, gara senza gara che comprende i migliori – e magari più discussi – film passati a Venezia, Locarno, Cannes, Sundance e Toronto. Quest’anno sono 79, fra cui il vincitore di Venezia 73 “The Woman Who Left”, gli ultimi lavori di autori contemporanei di punta (“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, “Yourself and Yours” di Hong Sang-soo, “Elle” di Paul Verhoeven, “La ragazza senza nome” dei Dardenne, “Paterson” di Jim Jarmusch), le nuove scommesse (“Diamant noir”, il finlandese in corsa ai prossimi Oscar “The Happiest Day in the Life of Olli Maki”, “Cump4rsit4” dell’aficionado argentino Raul Perrone, il discusso “Nocturama” di Betrand Bonello) e le pellicole di più largo richiamo (“Personal Shopper” e “Certain Women” con Kristen Stewart, il film di chiusura “La La Land”). Tutto qui? Neanche per idea: oltre alla selezione ufficiale c’è un dedalo quasi inestricabile di tributi, focus speciali e retrospettive, con corollario di eventi extra-cinematografici. Fra un concerto di Patti Smith, una mostra fotografica e la proiezione gratuita di “Daft Punk Unchained” con annesso party è possibile approfondire in questa 54a edizione la cinematografia di Kenneth Lonergan – per inciso: il più talentuoso ed incompreso cineasta americano dei 2000, secondo Martin Scorsese, folgorato dal suo “Margaret” – ad esempio, cui è affidata l’apertura della manifestazione con “Manchester by the Sea”, o magari perdersi fra una sala e l’altra a caccia della quasi totale filmografia di Jacques Rivette, maestro della Nouvelle Vague. Fra i percorsi possibili, spiccano poi l’omaggio al “dancer in the dark” Christopher Walker (12 i film proposti, compreso il memorabile videoclip “Weapon of Choice” firmato da Spike Jonze) e il progetto sui cinegiornali cubani del decennio 1960-1970. Ci piace chiudere questa pur sommaria elencazione del denso cartellone della Viennale 2016 con quello che gli organizzatori definiscono il “Rinascimento analogico”, ovvero il rispolvero del re dei formati del cinema classico (il 70mm) favorito perlopiù dalla distribuzione di “The Hateful Eight” di Tarantino: la sezione “Analog Pleasure” è dedicata ai formati desueti della Settima Arte, destinati a non estinguersi nonostante l’avvento del digitale. Un approfondimento che contempla i super8 del collettivo berlinese Die Tödliche Doris, i 16mm di “La Vallée close”, i 35mm delle “Student Nurses” di Stephanie Rothman e – dulcis in fundo – i 70mm di Jacques Tati e del suo “Playtime”. Quello della capitale austriaca è un festival insaziabile e impossibile da abbracciare nella sua totalità, che suggerisce itinerari eclettici – cerebrali e popolari, d’essai e mainstream – ma comunque all’insegna del rifiuto dell’istituzionalità. 13 giorni che grazie all’approccio degli organizzatori Eric Pleskow, Hans Hurch e Eva Rotter diventano – parafrasando Tati – “tempo di divertimento”, opposto alle sovrastrutture festivaliere che fanno della loro supposta esclusività il proprio fiore all’occhiello.

Filippo Zoratti

 

 

Cinema

53. Vienna International Film Festival Viennale 2015

Episodio III: Il Battito Animale del Cinema

di Filippo Zoratti

In quanti modi è possibile declinare una rassegna cinematografica? Per definizione, dicesi retrospettiva un ciclo di proiezioni che illustra l’evoluzione di un artista, di un movimento “culturale”. Ed è, in effetti, ciò a cui siamo abituati: nei festival vengono prese in considerazione le carriere di registi e talvolta di attori, oppure di generi e sottogeneri seminali. A volte ci si può imbattere in una serie di restauri importanti per il curatore della sezione, come accade ad esempio con i Venezia Classici della Biennale. La proposta della Viennale – di cui vale la pena parlare anche a festival finito, perché si svolge autonomamente dal 16 ottobre al 30 novembre – allarga a dismisura il ventaglio, abbracciando in pratica tutta la storia del Cinema fin dai suoi albori: “Animals” si impone come una “piccola zoologia delle immagini in movimento”, un dialogo fra natura e tecnologia interpretabile nei modi più disparati. Nelle parole del selezionatore Akira Lippit, la mostra “non accampa alcuna pretesa di completezza, ma è utile per comprendere come il mezzo cinematografico fin dalla sua preistoria abbia preservato la vita animale”. Fra i 47 lungometraggi (più un numero imprecisato di corti) spicca “Gli uccelli” di Hitchcock, punta di diamante anche in virtù della presenza viennese della protagonista Tippi Hedren e titolo spartiacque: i volatili di sir Alfred sono un elemento subordinato che diviene protagonista, un comprimario trascurabile che si tramuta in minaccia e nemico da debellare. Le opere di più facile richiamo sottolineano come la visione ferina si sia trasformata nel corso dei decenni: nel dittico formato da “Tarzan l’uomo scimmia” (1932) e da “King Kong” (1933) l’animale “è” l’uomo, perché contribuisce alla crescita di un essere “selvaggio” abbandonato a sé e crea un’immedesimazione tale da veicolare una riflessione sulla bestialità di cui siamo capaci; ma basta spostarsi qualche anno più là per incrociare lo straziante “Bambi” (1942) e “Torna a casa, Lassie!” (1943) e assistere ad un nuovo punto di vista che fa coincidere un cerbiatto e un esemplare di collie con l’ingenuità (vagamente ricattatoria) e la totale fedeltà verso l’uomo. Probabilmente l’espressione più stimolante e degna di menzione della dicotomia umano-disumano viene dalle metaforizzazioni, ancora visibili nonostante la non stringente attualità: è impossibile non leggere nella devastazione del primo eccezionale “Godzilla” (1954) uno spauracchio della Guerra Mondiale da poco conclusasi, così come – sorpassando di slancio il nostalgico comparto degli effetti speciali – pare evidente la critica alla presunzione e all’onnipotenza umana nell’originale “Il pianeta delle scimmie” (1968). Fra irresisitbili animali antropomorfi e parlanti (“Babe va in città”, “Fantastic Mr. Fox”), cani e corvi neorealisti (“Umberto D.”, “Uccellacci e uccellini”) e bizzarre mutazioni da incubo (“La mosca”), sono tuttavia come sempre i documentari a lasciare il segno, a dare senso ad una retrospettiva che raccoglie più animali di quanti la nostra memoria e la nostra comprensione possano accogliere. “Koko, il gorilla che parla” (a metà fra doc e finzione), “Animal Love” di Seidl, “Grizzly Man” di Herzog e “Cane Toads” di Mark Lewis parlano di noi, di un battito animale che è il nostro e di cui – cinematograficamente ed esistenzialmente – non possiamo fare a meno. Il cinema e l’uomo non sono nulla senza gli animali… compresi i meme di Facebook e i filmati sui gattini di Youtube.

Filippo Zoratti

 

Cinema

53. Vienna International Film Festival Viennale 2015

Episodio I: Ai confini dell’impero

di Filippo Zoratti
 

Oltre la Berlinale e la Biennale, c’è la Viennale, un “nuovo mondo” lontano dai riflettori e dall’hype internazionale, ma fortemente radicato sul territorio e con alle spalle una storia lunga quasi 60 anni. Il fondamento principale su cui si basa il Vienna International Film Festival, fin dalla sua prima edizione datata 1960, è proprio quello di una giocosa ma aperta contrapposizione con il blasone e l’istituzionalità dei cugini tedeschi: la Viennale è un festival non competitivo, privo di tappeti rossi e premi. Cui prodest? Agli amanti del cinema, anzitutto: perché con le sue oltre 300 proiezioni annuali la kermesse austriaca si propone per prima cosa come “upload”, aggiornamento indirizzato proprio a chi non ha la possibilità di frequentare i migliori eventi mondiali. A Vienna, sul finire di ottobre, è possibile passeggiare per le vie del centro e fermarsi a guardare i vincitori di Venezia, Berlino, Cannes, Locarno, Toronto, San Sebastian… Una scelta controcorrente, trattandosi di una manifestazione che si svolge in una capitale europea, ma che non possiamo che definire vincente: Vienna si svincola dalle costrizioni di facciata, insegue percorsi personali che mescolano alto e basso, e soprattutto restituisce allo spettatore l’opera d’Arte filmica, nella sua unicità. Nel corso della sua 53a edizione, che si svolge dal 22 ottobre al 5 novembre, questa insolita festa della Settima Arte proporrà ben 12 sezioni, articolate in un fitto programma che copre 5 sale sparse per la città. Vale la pena nominarle (quasi) tutte, a costo di scadere nella mera elencazione. Anzitutto, lo “Spielfilme”, sorta di selezione ufficiale che annovera i film di più facile richiamo: dalle anteprime dell’ultimo Todd Haynes (“Carol”) e dell’ultimo Woody Allen (“Irrational Man”) ai vincitori di Locarno (“Right Now, Wrong Then” di Hong Sang-soo) e di Cannes (“Dheepan – Una nuova vita” di Jacques Audiard), dai nuovi imprescindibili autori (J.C. Chandor, Yorgos Lanthimos, Sean Baker) alla presenza dei registi italiani amati e riconosciuti all’estero (Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Pietro Marcello). Parallelamente, si sviluppa un corposo focus sui documentari, che da solo meriterebbe una visione complessiva: “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer, “Behemoth” di Zhao Liang, “The Wolpack” di Crystal Moselle, “Dreamcatcher” di Kim Longinotto, per un totale di 70 titoli. E ancora: i tributi a Tippi Hedren, a Manoel de Oliveira e al cinema pulp austriaco (avete letto bene), fino all’omaggio al cineasta sperimentale argentino Raul Perrone (di cui saranno visibili anche gli ultimi due lavori, “P3ND3JOS” e “Favula”). Ma i veri pezzi pregiati, per il sottoscritto, saranno altri: il programma speciale “Griechenland”, incentrato sulla New Weird Wave greca – ovvero sulle rappresentazioni filmiche della crisi economica ellenica, dentro e fuor di metafora – e l’eccezionale retrospettiva “Animals”, dedicata a cinema & animali (ancora una volta, tra alto e basso, si passerà da “Godzilla” a “Babe”, da “White Dog” di Fuller a “Torna a casa Lassie”). Ai confini dell’impero cinematografico che “conta” (fra mille virgolette) c’è la Viennale, che da decenni – per usare un eufemismo – se ne frega, e propone una festa generosissima e onnicomprensiva a perfetta misura di cinefilo. Come per il Neo di “Matrix” non c’è che una soluzione: sedersi comodamente, connettersi al buio della sala (ma senza prese usb piantate nella testa) e abbandonarsi al flusso delle immagini in movimento.

Trailer della Viennale 2015

Filippo Zoratti

Pubblicato su www.beniculturali.info